Lavorare in un carcere fa capire molte cose sulle difficoltà delle persone e aiuta a guardare la società da un altro punto di vista, come spiega in questa intervista Mario Nadalutti, ispettore della Polizia penitenziaria.
L’Ispettore Mario Nadalutti
Ci sono lavori fondamentali per una comunità, ma poco conosciuti e, in genere, poco valorizzati. Anche per questo la redazione di WheelDM ha vo-luto incontrare Mario Nadalutti, 48 anni, friulano di Cavalicco, ispettore di polizia penitenziaria nella Casa circondariale di Udine. Ne è nata una chiacchierata molto interessante che apre una finestra diversa su un mondo chiuso come quello del carcere.
Quale percorso formativo e di vita l’ha portata a scegliere questo lavoro?
Ho iniziato per la leva militare, alla fine degli anni Ottanta, facendo l'ausiliare in via Spalato. In seguito, non vedendo molti sbocchi lavorativi nel mio ambito di studi (diploma di commercio aziendale) ho deciso di rimanere, raccogliendo oltretutto il testimone di due zii che facevano lo stesso mestiere.
Quali sono i principali compiti di un agente di polizia penitenziaria?
Il compito principale è ovviamente quello della vigilanza, nelle stanze e nei luoghi in comune. Tuttavia il ruolo dell'agente è diventato un ruolo attivo nel percorso di recupero del detenuto, partecipando anche alle riunioni della equipe. Oltre a questi compiti gli agenti si occupano anche degli uffici e di tutta la parte burocratica e gestionale del carcere.
Le piace il suo lavoro?
Sono soddisfatto della mia carriera, che mi ha portato a progredire fino a diventare ispettore. Al di là di questo però, devo dire che lavorare in un carcere ti dà la possibilità di guardare la società esterna da una prospettiva differente e capire tante cose sulle difficoltà delle persone. Il nostro, però, è anche un lavoro logorante sotto l'aspetto psicologico. La percentuale di suicidi fra gli agenti carcerari è tra le più alte, io ho perso due colleghi. Dovrebbe essere previsto un sostegno psicologico costante che invece non c'è. Il rischio di perdere il contatto con la realtà, di non riuscire più a distinguere il bene dal male è enorme. Quando certi detenuti non ti suscitano più nessuna emozione bisogna essere lucidi nel capire che qualcosa non funziona più in te.
Ha mai avuto a che fare con detenuti pericolosi?
Fra il 97 e il 2015 ho lavorato a Tolmezzo, dove ci sono detenuti in regime di alta e massima sicurezza, il 41bis, riservato ai criminali più pericolosi. Ora sono rientrato a Udine, una situazione generalmente molto più tranquilla.
Come sono le celle?
A Udine ci sono stanze di diverso tipo, che possono ospitare da due fino a sette detenuti. Secondo la legge i detenuti hanno un minimo di tre metri quadrati calpestabili, nel rispetto del decoro e della dignità umana. Le celle hanno un bagno con doccia, un televisore e un piccolo angolo cottura.
A proposito di cottura, come si mangia in un carcere?
In cella si può cucinare quello che viene portato dai parenti oppure comprato nell’“impresa”, lo spaccio interno. C'è anche la mensa, completamente gestita dagli stessi detenuti con la supervisione degli agenti. Chi non mangia quanto preparato cede la porzio-ne ai compagni. Non ci sono sprechi. Negli ultimi tempi la gestione si è leggermente complicata, nel tentativo di rispettare le varie restrizioni religiose e chi soffre per diverse patologie alimentari. A Udine il ruolo del cuoco è fisso mentre gli altri prestano un servizio a rotazione. C'è chi impara a cucinare in carcere con i corsi che vengono organizzati, chi lo so già fare. Se qualcuno ha la passione per la cucina escono cose alla MasterChef.
E com'è possibile che una persona con queste capacità finisca “dentro“?
Spesso, purtroppo, le situazioni di disagio non fanno emergere le capacità che una persona ha in sé.
Com'è composta la popolazione carceraria, quali le difficoltà.
Gli agenti di stanza nel nostro carcere sono 130 ma sulle 24 ore ne sono in servizio circa 60. A Udine abbiamo circa 150 detenuti, età media tra i 25 ed i 35 anni. La maggior parte di questi giovani sono dentro per reati legati alla tossicodipendenza. Circa un'ottantina sono italiani, in leggera minoranza gli stranieri. La popolazione degli stranieri è in continuo cambiamento e dopo i nord africani c'è stato il periodo dell'est Europa. Ora abbiamo tanti afghani e pakistani, etnie particolari, poco conosciute, con cui è difficile relazionarsi.
C'è un problema di lingua?
Sì, anche perché non ci sono i mediatori culturali per mancanza di fondi. Ed è difficile non solo capire quello che dicono, ma anche i loro codici di comportamento, le loro usanze, la loro cultura. Così come è molto complicato fargli capire il senso degli atti giuridici.
Quanti posti ha il carcere di Udine? Ci sono problemi di sovraffollamento?
Il nostro carcere raramente soffre di sovraffollamento, abbiamo 160 posti e, quando arriviamo a 155, preventivamente cerchiamo di smistarne una quindicina in altri istituti.
In base alla sua esperienza, crede che tutti i detenuti si possano riabilitare?
Sì, io lo credo. Tuttavia le situazioni sono molteplici. Se parliamo dei detenuti del 41bis la percentuale di riabilitazione e pentimento si abbassa drasticamente. Invece coloro che hanno compiuto reati anche molto gravi, violenti ma dovuti a una singola situazione difficilmente prevedono una recidiva e la loro riabilitazione è pressoché totale. Per gli stranieri o i tossicodipendenti il discorso è ulteriormente differente. Ed è ancora più evidente che il problema sia la società. Incapace di seguire, curare e accogliere incarcera, incurante del fatto che spesso la prigione diventa una scuola di delinquenza. Ci sono poi persone che soffrono di malattie mentali, che magari manifestano il proprio disagio in maniera violenta, e che dovrebbero essere gestiti con mezzi e personale specifico.
Cosa ci fanno in un carcere? Come si svolge una giornata all'interno del carcere?
Gli agenti che lavorano nelle sezioni sono suddivisi in tre turni da otto ore. Inoltre ci sono i vari uffici. I detenuti possono muoversi abbastanza liberamente all'interno della loro sezione, per il principio della vigilanza dinamica. Sono inoltre previste delle ore in cui è possibile uscire nel cortile del passeggio. Quella di Udine è una casa circondariale che ospita quindi detenuti in attesa di giudizio o con pene relativamente brevi, quindi non vengono organizzate molte attività.
C'è la possibilità di studiare, di seguire dei corsi?
I detenuti possono frequentare, se necessario, le scuole elementari e medie. Per gli stranieri ci sono i corsi di alfabetizzazione. Oltre ai corsi più professionali, che tornano utili anche per la manutenzione del carcere stesso. I posti sono pochissimi considerato che praticamente tutti vorrebbero partecipare ai corsi, per dare un senso al tempo e sperare in un futuro migliore. Al momento abbiamo anche quattro persone che possono uscire durante il giorno per andare a lavorare e rientrare alla sera, in regime di semilibertà. Vorrei poter dire che queste attività siano efficaci, ma devo purtroppo constatare che, una volta fuori, in troppi si vedono sbattere la porta in faccia a causa del loro passato.
Come cambiano i rapporti interpersonali dentro il carcere? Ha mai fatto amicizia con un detenuto?
È necessario mantenere un giusto rigore e una certa distanza professionale per il bene di tutti, quindi non si può sviluppare una vera e propria amicizia. Ma penso di essere sempre riuscito ad ottenere e dare rispetto.
Le è mai capitato di veder passare dal carcere detenuti di classi sociali elevate?
Pochi. È capitato con qualche politico, in particolare negli anni di Tangentopoli. Per loro è davvero dura: abituati a dettare le regole si ritrovano in una situazione in cui devono obbedire.
Ci sono corsi di formazione per gli agenti?
Purtroppo pochi a causa della solita carenza di risorse. Di recente ne abbiamo fatto uno sugli atti di polizia giudiziaria: perquisizioni, ispezioni, sequestri, acquisizione del Dna. A tutti i detenuti, da qualche tempo, viene prelevato un campione salivare e il DNA registrato nel database di Rebibbia. L'attenzione verso il proselitismo all'estremismo e al terrorismo ha fatto alzare di molto il livello di allerta e ci sono in atto tante mi-ure di prevenzione. Ogni piccola attività sospetta all'interno del carcere deve essere riportata a Roma dagli agenti.
In generale com'è la situazione del carcere di Udine?
L'istituto di Udine è in buone condizioni, le celle sono state ristrutturate in maniera opportuna, basti pensare che il nostro è uno dei pochi carceri in grado di ospitare anche persone disabili. Tuttavia ci sono dei fondi bloccati in Ministero che servirebbero per un secondo lotto di ristrutturazione, indispensabile per la parte esterna e per la portineria, che rappresentano il primo approccio di una persona con il carcere. Entrare in una struttura apparentemente fatiscente non lascia il giusto imprinting.
Nel carcere di Udine c'è una cella per disabili che lo scorso agosto risultava occupata da una persona con disabilità. È una situazione frequente?
Udine è uno dei pochi istituti del Triveneto che ha una cella per persone con disabilità pensata in modo che una persona possa gestirsi autonomamente. Per questo non è infrequente che sia occupata, dato che vengono inviati qui detenuti con questo tipo di problemi anche da altri carceri che non sono attrezzati per accoglierli.
C'è un minimo di assistenza per chi non riesce a gestirsi da solo?
C'è la possibilità di pagare un altro detenuto, che ha frequentato un corso apposito, affinché si prenda cura di chi non è autosufficiente per qualche ragione o ha particolari problemi psicologici.
La casa circondariale di Udine
L’attuale istituto di Udine è stato aperto nell’aprile del 1925. La struttura è composta da un piano terra e due piani, ha la forma di una croce ed è stata in più occa-sioni adeguata e ampliata. Dal 1982 nell'istituto si realizzano attività di trattamen-to, scolastiche e formative a favore della popolazione detenuta (organizzate sia dalla Casa circondariale in collaborazione con enti di formazione professionale, sia da associazioni di volontariato come l'Associazione Icaro). Nel 1995, su un terreno annesso al carcere, è stata co-struita una nuova caserma per il personale di polizia penitenziaria e realizzato un poligono di tiro per l'addestramento del personale del triveneto. La Caserma è intitolata al maresciallo Antonio Santoro, ucciso il 6 giugno 1978 da esponenti dell’eversione terroristica mentre si recava al lavoro, cui è stata conferita anche la medaglia d’oro al merito civile, alla memoria. Nel febbraio 2002 l’istituto fu parzial-mente chiuso per due anni per dar luogo a sostanziali lavori di ristrutturazione dei reparti maschili. Il carcere, che si trova in via Spalato 30, è composto da 57 stanze di detenzione di dimensioni di-verse, tutte con bagno separato dal resto della cella (con doccia, bidet, lavabo e acqua calda). Ci sono poi tre aule, una biblioteca e un campo sportivo.