Rita Maffei, vicepresidente del Centro servizi e spettacoli, fa un bilancio di oltre trent'anni di attività
Rita Maffei
Ha capito di voler fare l'attrice a 18 anni, folgorata da uno spettacolo di Carmelo Bene al palasport “Carnera” di Udine. In scena c'era solo il grande attore con la sua voce, che leggeva l'Inferno di Dante e poesie di Dino Campana.
Da quel momento, per Rita Maffei, il teatro è diventato una ragione di vita, il mezzo per costruire un progetto culturale e sociale collettivo che ancora continua. In oltre trent'anni di attività ha diretto e interpretato molti spettacoli in Italia e all’estero, sempre su testi di drammaturgia contemporanea, ed è vicepresidente del Centro Servizi e Spettacoli, teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia. È venuta a trovarci a Casa UILDM in un piovoso pomeriggio di novembre.
Un suo video si conclude con la frase del poeta e scrittore congolese Sony Labou Tansi: “Il teatro resta il metodo più rapido per parlare agli uomini”. Ne è convinta?
Convintissima e devo dire che, grazie all'espe-rienza che sto facendo ultimamente di teatro partecipato, me ne rendo conto ancora di più. È proprio la prerogativa dello spettacolo dal vivo: siamo insieme e stiamo vivendo insieme la stessa esperienza. Questa è la grande magia del teatro.
Cosa si intende oggi per teatro di innovazione, teatro sperimentale?
Quando ho cominciato, esistevano i cosiddetti centri di ricerca teatrale. All'epoca il teatro era molto diviso tra quello tradizionale e quello sperimentale. Man mano che gli anni sono passati questi confini si sono sempre più assottigliati. Innovazione per noi significa innanzitutto avere a che fare con la realtà dei nostri tempi. Cerchiamo di mettere in scena testi o temi legati alla nostra vita quotidiana, ai nostri tempi, alla contemporaneità. Se mettiamo in scena testi del passato, come una tragedia greca, cerchiamo sempre di far sì che quelle parole abbiano senso oggi. Anche la forma, il linguaggio, è importante. È difficile riuscire a coinvolgere un ragazzo di 18 anni se parliamo una lingua che per lui è lontana. Allora, per far sì che i testi possano emozionare, coinvolgere le persone dei nostri giorni, anche la forma deve essere il più possibile vicina a quella dei giorni nostri.
Da chi è composto il pubblico che viene ai vostri spettacoli?
Rispetto a teatri più tradizionali, come il “Giovanni da Udine”, con la stagione di Teatro Contatto, noi vantiamo una platea che ha un'età media molto bassa, proprio perché facciamo innovazione, parliamo di tematiche contemporanee e usiamo gli strumenti della contemporaneità per esprimerci. Ci sono tante persone che vengono da noi e che hanno conosciuto il teatro grazie a questo modo di fare teatro. Facciamo una stagione anche per bambini e per le famiglie, in collaborazione con il Teatro Nuovo, la domenica pomeriggio. Poi c'è un'altra stagione che facciamo la mattina per le scuole, per un pubblico che va dai 3 ai 18 anni. Questo fa sì che i bambini e i ragazzi si abituino da sempre ad andare a teatro, che il teatro faccia parte della loro vita in maniera naturale e continuino a frequentarlo anche fuori dalla scuola. È come la lettura: se uno comincia a leggere da bambino, il libro fa parte della sua vita e, anche quando sarà fuori dalla scuola, continuerà a leggere.
Sopravviverà il teatro nell'era dei social e della realtà virtuale?
Stiamo facendo un esperimento in teatro con la realtà virtuale e pochi giorni fa un giornalista mi ha chiesto se quindi il teatro è destinato ad essere soppiantato da questi nuovi strumenti. Non credo sarà così, non è morto dopo il cinema, non vedo perché la realtà virtuale debba soppiantarlo. Anzi, può essere uno strumento in più per il teatro. L'espressione teatrale è una delle forme più antiche dell'espressione umana, ma in tutte le epoche il teatro ha usato gli strumenti del tempo in cui è stato fatto. Quindi, se oggi esistono i social, internet, le telecamere e la realtà virtuale, noi, per poterci esprimere al meglio, usiamo anche questi strumenti, perché sono gli strumenti della nostra quotidianità.
Cos'è per lei l'ascolto? Come entra questa dimensione nei suoi spettacoli?
L'ascolto è fondamentale per qualsiasi cosa. Senza l'ascolto non si può fare nulla. L'ascolto viene prima di compiere un atto artistico, l'ascolto di sé, l'ascolto degli altri avviene durante la creazione artistica. Perché se io sono in scena e non ascolto i miei compagni, non esiste relazione. E il teatro è fatto di relazione. Nel momento in cui poi si va in scena, non c'è soltanto l'ascolto mio, di me stessa, della mia interiorità, non c'è soltanto l'ascolto di chi è in scena con me, con cui dialogo, ma c'è anche l'ascolto degli spettatori, delle loro reazioni. Ed è un ascolto che va fatto non solo con l'orecchio, ma con tutti i sensi. È un'attenzione fondamentale, perché siamo tutti nello stesso luogo e stiamo vivendo tutti la stessa esperienza nello stesso tempo. Per fare teatro, l'empatia è essenziale.
Che cos'è il teatro partecipato?
La definizione di “teatro partecipato” è molto recente, però il teatro cosiddetto partecipato si fa da un sacco di tempo. Anche se è fatto da persone che non sono attori professionisti, non va confuso con il teatro amatoriale. Nel teatro amatoriale viene messo in scena un testo teatrale e le persone interpretano dei personaggi. Nel teatro partecipato si fa un'altra cosa, si portano in scena le persone per quello che sono, non per fargli fare Amleto o Edipo. Le persone interpretano se stesse. Noi abbiamo cominciato a fare teatro partecipato una ventina d'anni fa, ma senza averne la consapevolezza. Adesso ce l'abbiamo e da circa quattro anni abbiamo cominciato a farlo molto seriamente, anche ispirandoci a esperienze che vengono, in particolare, dai paesi del nord Europa. A Berlino, ad esempio, c'è una compagnia molto famosa di teatro partecipato che si chiama “Rimini protokoll” che ha dato una definizione molto bella dei cittadini che scelgono di fare uno spettacolo di teatro partecipato. Li hanno chiamati “esperti di vita quotidiana”.
L’Assemblea - foto credits: Alice Durigatto
Negli anni ha dato vita a diversi progetti, ce n'è uno che le ha dato particolare soddisfazione?
La scelta di vivere a Udine e lavorare nel teatro di produzione della città dove sono nata, ha fatto sì che per me fosse importante la continuità, la necessità di lavorare assieme ad altre persone a un progetto per far crescere qualcosa all'interno di una comunità. Anche quando facciamo qualcosa di nuovo, e dunque guardiamo al domani, comunque ci portiamo dietro le cose che abbiamo fatto precedentemente. E quindi lo spettacolo che mi ha dato più soddi-sfazione è la somma di tutte le cose che abbiamo fatto e di quelle future, perché tutto è concatenato. Ad esempio in queste settimane siamo in scena con uno spettacolo, “Il labirinto di Orfeo”, all'interno del quale ci sono persone che hanno fatto teatro partecipato con noi negli spettacoli precedenti, attori che hanno già lavorato con noi e con cui stiamo progettando anche altri lavori. Si è creata cioè una comunità di persone, fatta di attori professionisti e cittadini comuni, che lavora insieme per crescere, che contagia anche gli stessi spettatori, che poi magari in una prossima occasione diventeranno cittadini che scelgono di partecipare a nuovi progetti. È come se fosse tutto un unico progetto che va ad attuarsi nei diversi spettacoli. Sono affezionata a tutto questo progetto più che al singolo lavoro e mi auguro che non abbia fine, perché dopo di me spero che ci siano persone più giovani che lo porteranno avanti.
In uno spettacolo lei ha trattato il tema del rapporto tra la donna e il potere. A che conclusioni è arrivata?
Non credo che il teatro debba dare delle risposte, sono convinta che debba aiutarci a porci delle domande, perché più ci poniamo domande e meglio capiamo il mondo con cui abbiamo a che fare. Fino allo scorso secolo i modelli di leadership che abbiamo avuto sono stati maschili perché in tutti i settori la classe dirigente era maschile. Tanto che, quando negli anni Ottanta le donne hanno cominciato a occupare ruoli dirigenziali, facevano il verso gli uomini, facevano le donne in carriera, mettevano addirittura i vestiti in doppiopet-to. Imitavano gli uomini, perché avevano bisogno di sentirsi toste in un ruolo che storicamente era appan-naggio degli uomini.
Oggi le cose sono cambiate?
Pian piano, fortunatamente, questa cosa si sta perdendo e la donna, anche in un ruolo dirigenziale, sta ritornando a essere quello che è, ha imparato a non imitare per forza un uomo. È quindi abbiamo anche tantissime donne che occupano posizioni di potere che non rinnegano la propria femminilità o la propria vulnerabilità. Patrizia Moroso, la direttrice artistica della ditta “Moroso”, per esempio, quando l'abbiamo intervistata per lo spettacolo del “Mittelfest” “Sì signora”, ha detto una cosa molto interessante. Noi donne siamo abituate al lavoro di squadra, perché in casa l'abbiamo sempre fatto. Forse questa è una delle chiavi in cui le donne possono essere utili per dare delle competenze anche agli uomini, che invece sono abituati a ordinare.
Lei ha coinvolto nel teatro anche immigrati, migranti e profughi. Ha incontrato difficoltà od ostilità nel portare avanti questi progetti?
No, però può darsi che da oggi in poi le troveremo. La prima esperienza in questo senso si intitolava “Human link”, mentre lo spettacolo che è andato in scena a Matera in settembre si intitolava “Storia di persone in viaggio”. La fondazione “Città della Pace” di Potenza, in Basilicata, mi ha proposto di fare quest'esperienza con dei rifugiati e richiedenti asilo di diverse provenienze. Ho chiesto esplici-tamente di non lavorare solo con rifugiati, perché altrimenti avremmo avuto una specie di isolamento dalla realtà di queste persone. Per evitarlo ho voluto che ai laboratori partecipassero anche cittadini italiani e quindi le storie di persone in viaggio non sono soltanto storie di rifugiati, ma anche storie diverse, di viaggi fatti non per salvarsi la vita, ma magari per vedere il mondo. Ognuno in scena è stesso o se stessa e racconta la propria esperienza di vita. Finora tutto è andato bene, perché ci siamo sempre rivolti in situazioni dove veniva compreso e rispettato quello che stavamo facendo. Adesso che stiamo tentando di portare lo spettacolo in giro, però, cominciamo ad avere le prime difficoltà. I tempi sono cambiati da un anno a questa parte e parlare di queste cose diventa sempre più impegnativo è difficile.
Cenerentola – foto credits: Giovanni Chiarot
Cosa ci accomuna o ci differenzia come pubblico teatrale rispetto a persone provenienti da altre culture?
Ho avuto la fortuna di lavorare in India, in Iran, nei paesi del Maghreb, in diversi paesi europei e la cultura teatrale è molto diversa a seconda di dove vai. Diciamo che l'Europa, pur con grandi differenze, ha una radice di cultura teatrale molto simile. In altre culture no, le cose sono molto diverse. In Iran, ad esempio, c'è un rapporto con il corpo che non esiste. In scena non si toccano mai, perché è vietato. Anche in India l'approccio al teatro è completamente diverso. Negli Stati Uniti, invece, ho trovato una grande vicinanza. C'è una stretta relazione tra teatro e cinema, e il nostro cinema, essendo molto apprezzato, è la chiave per comprenderci tra artisti italiani e statunitensi. Esistono le culture teatrali, come esistono le culture letterarie dei diversi luoghi del mondo. Solo che in teatro è tutto più eclatante perché non c'è soltanto un modo di esprimersi, ma più modi: c'è il corpo, c'è la voce, ci sono le immagini, la scenografia, i costumi, la musica. Poiché il teatro è fatto di tante arti che lavorano insieme, anche le differenze culturali si moltiplicano.
La televisione dovrebbe trasmettere più teatro?
Io sono di una generazione che ha cominciato a vedere le prime cose da bambina in tele-visione e ricordo dei meravi-gliosi spettacoli di Eduardo De Filippo. Penso che la primissima cosa di teatro che ho visto in vita mia sia proprio “Natale in casa Cupiello” in televisione. C'è un canale, Rai 5, dove ci sono spesso spettacoli teatrali. In molti casi la televisione può anche stimolare ad andare a teatro. Una signora che conosco aveva visto proprio su Rai 5 “Le sorelle Macaluso” di Emma Dante, che è una delle grandi registe del teatro contemporaneo. Il Css ce l'aveva nel programma della stagione e lei è venuta a rivederlo. Credo perciò che sia bene che si faccia vedere teatro in televisione.
Il teatro può essere una terapia?
Può esserlo, ma ci vuole cautela. Nel senso che per fare teatroterapia bisogna avere le competenze giuste, che io, per esempio, non ho, perché non sono una psicologa. È bene che la facciano i professionisti che sanno farla. Più in generale, il teatro può essere utile a chi ha determinate difficoltà. Ad esempio credo che possa essere molto utile a migliorare l'empatia. Io stessa, da quando ho iniziato a far teatro, ho imparato ad essere più tranquilla nel rapporto con gli altri, meno timida, meno timorosa del giudizio altrui.
La disabilità sulla scena: che cosa pensa degli spettacoli teatrali che coinvolgono persone con disabilità?
Ci sono registi che hanno lavorato in questo senso in maniera molto seria. Lo scorso maggio a Dresda, in occasione del festival europeo del teatro partecipato, ho visto uno spettacolo di danza bellissimo, che aveva per protagoniste una serie di persone con disabilità che stavano in scena anche in carrozzina. Alcune avevano dei grossi problemi e i movimenti che potevano fare erano molto limitati, ma io ho visto davvero uno spettacolo di danza che, tra l'altro, ha vinto il premio del pubblico. Un altro esempio che mi piace fare riguarda Pippo Delbono che ha messo in scena degli attori con la sindrome di Down o persone che avevano determinate disabilità fisiche. In particolare Delbono ha conosciuto di-versi anni fa nel manicomio di Aversa, un uomo, Bobò, che era microcefalo e sordomuto. L'ha coinvolto in tantissimi suoi spettacoli, lo portava sempre con sé in tournée e a un certo punto l'ha ufficialmente adottato.
La Maffei a Casa UILDM
Qualcuno ha criticato Delbono, accusandolo di strumentalizzare le persone della sua compagnia.
Lo so, ma credo che abbia agito con rispetto e con grande generosità, facendo una scelta di vita. Penso che il lavoro che ha fatto sulla disabilità vada proprio al di là della disabilità. Nei suoi spettacoli in scena ci sono persone che trasmettono emozioni, perché il teatro fa sì che le persone riescano a comunicare quello che sono interiormente, al di là dei limiti che ognuno di noi può avere.
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