Intervista a Paolo Zoppolatti chef del ristorante "Al Giardinetto"
È nato il 27 febbraio di 50 anni fa, sotto il segno dei pesci. Figlio di una famiglia che da più di cento anni gestisce il ristorante “Al Giardinetto” di Cormons, si può dire che è cresciuto tra le pentole e i fornelli. Per lo chef Paolo Zoppolatti la celebrità è arrivata con la partecipazione alla trasmissione televisiva “La prova del cuoco” di Rai 1. La sua passione, però, era e rimane la cucina, come racconta in questa intervista frutto di una lunga chiacchierata che si è svolta a Casa UILDM in un pomeriggio autunnale.
Com'è nata la passione per la cucina?
Ovviamente è stata una cosa di famiglia. Già da piccolo ero stato colpito dai racconti sui piatti tradizionali, rimasti come un ricordo indelebile, e sono praticamente cresciuto nel nostro ristornate. Dopo le scuole medie sono arrivato a un bivio. Dovevo scegliere tra la scuola alberghiera o coltivare la mia altra passione per il disegno tecnico. Scelsi la scuola di design e arredamento, pur continuando a lavorare in cucina.
Quando cambiò idea?
Seguendo mia madre a Merano per un corso da un cuoco, capii che cucinare non è solo far da mangiare, ma può essere un'attività creativa in cui puoi cercare di trasmettere agli altri qualcosa. E così la mia strada è diventata un'altra. Ho cominciato ad andare in giro per il mondo per fare esperienza da altri cuochi. Ed è una cosa che ho continuato a fare e che mi piace moltissimo, perchè, per quanto lontane siano le culture e le tradizioni, c'è sempre qualcosa che puoi portare a casa e applicare nel tuo lavoro.
Il “Giardinetto” di Cormons è aperto dal 1907. Qual è il filo conduttore di questa attività così longeva?
Soprattutto il fatto che sia un posto legato alla nostra famiglia a un lavoro fatto in gruppo. Lo vedo come un messaggio molto attuale, soprattutto oggi che la vita tendenzialmente ci spinge a essere molto isolati, molto soli. Dal 1907 nel nostro ristorante c'è sempre stato qualcuno di famiglia in cucina. Mio padre ha 91 anni e ancora ci lavora, è il primo ad alzarsi, apre tutto, controlla i conti e il lavoro che facciamo io e i miei due fratelli, e anche mia madre cucina ancora. Tutto questo è percepito dai clienti che sentono un rassicurante senso di continuità. Alcuni piatti, come gli gnocchi di susine, non possiamo toglierli dal menù perché hanno una richiesta continua. Ci sono degli anziani che si ricordano che venivano a mangiarli da bambini. E a me fa piacere, perchè è un ricordo che continua ed è un filo che sta tenendo in piedi l'identità del nostro ristornate.
Qual è il piatto che ha creato che è stato più apprezzato?
Un piatto che mi ha dato molta soddisfazione, perchè molti cuochi nel tempo me lo hanno dedicato, è la “Dadolata di Cervo con Ortaggi di Inverno”. L'ho creato una dozzina di anni fa e prevede una tecnica molto particolare: la cottura della carne dentro un vaso, a bagnomaria. È un piatto nato per coinvolgere tutti i sensi, perchè quando a tavola si apre il vaso, si sente il suono dell'apertura e poi, con il profumo, arriva un'esplosione di sapori.
Qual è invece il piatto che ha cucinato che per lei è il migliore?
Faccio fatica a indicare un piatto come il migliore. La grande difficoltà per un cuoco è quella di riuscire a fare un ottimo piatto proponendo qualcosa di estremamente semplice. In questo senso, per esempio, l'altro giorno ho avuto una piccola soddisfazione con i broccoli. Mi sono reso conto che quando li lavoravo, ne utilizzavo solo una parte, scartando foglie e gambi. Ho pensato di creare un piatto che, nella sua semplicità, raccogliesse tutto. L'ho dato a degli amici ed è molto piaciuto.
A chi si è ispirato? Ci sono chef che considera suoi maestri?
La prima persona cui mi sono ispirato è mia mamma, perchè mi ha lasciato e mi lascia delle sensazioni uniche. Un’altra figura che nel mio cammino ha rappresentato una svolta è Fulvio De Santa, un cuoco di Forni di Sopra che vive a Verona. Attorno ai vent'anni andai a fare le ferie da lui. Aveva lavorato con i più importanti cuochi francesi e italiani. Da lui appresi molto della cucina friulana e carnica. Poi non posso non citare Gualtiero Marchesi che ha davvero dato una svolta alla cucina italiana.
La vostra clientela viene anche dall'estero?
Abbiamo la fortuna di vivere in Friuli Venezia Giulia, una terra di transito, di confine. Tantissime persone arrivano dall'estero, soprattutto Austria e Germania. Ultimamente, legati al discorso del vino, stanno arrivando anche americani e australiani. Si comincia a vedere un turismo di persone che da lontano vengono in modo mirato a vedere la nostra regione e questa è una cosa molto positiva.
La clientela negli anni è cambiata?
È cambiata e sta continuando a cambiare. Adesso per varie ragioni non c'è più l'idea di fare la grande abbuffata. Tendenzialmente la gente ordina due piatti, non mangia più quattro o cinque portate. Per certi aspetti è un bene, si cerca di gustare ciò che si mangia, mentre esagerare, tante volte, vuol dire buttare via soldi.
C’è un piatto che riassume il Friuli Venezia Giulia?
Non saprei. Quando penso a questa regione la vedo divisa in tre aree: la Carnia, il Friuli e l'area goriziano-triestina. Penso a un piatto che ho creato e che si chiamava “Dalla Malga al Casone”. Su una base di crema di ricotta disponevo, come seguendo il quadrante di un orologio, vari elementi. Partendo da qualcosa che richiamasse la montagna, per scendere poi fino al mare. Si creava così un percorso di sapori che era come un orologio di ricordi, di sensazioni legate al territorio. Ma forse la cosa che rappresenta meglio questa regione potrebbe essere una zuppa, un piatto di orzo e fagioli. Anche perchè l'orzo è un legume che identifica bene l'area del nord est.
Com'è nata la sua esperienza televisiva alla “Prova del cuoco”?
Mi hanno chiamato e mi hanno chiesto se volessi fare un provino per un programma televisivo. Ho accettato, anche se, da buon friulano, ho chiesto prima chi avrebbe pagato l'aereo per Roma. Il provino l'ho fatto in un appartamento vicino al Colosseo, in una specie di salotto. Mi hanno chiesto di salire in piedi su un tavolo e di far finta di raccontare una ricetta. E io ho scelto il gulash. È andata bene e 17 anni dopo sono ancora lì, anche se ho diradato le mie presenze. La televisione non l'ho cercata, mi piace rimanere un po' nascosto. Tuttavia faccio queste cose con entusiasmo, se non altro per la soddisfazione di riuscire a dire che c'è un cuoco che viene dal Friuli, perchè ci tengo alla mia terra e mi piace l'idea di farla conoscere.
Con quali cuochi della trasmissione ha legato di più?
Cerco di avere un buon rapporto con tutti, ma direi soprattutto con Renatone, che è una persona molto simpatica. Un altro con cui ho legato molto è Mauro Improta, di cui sono diventato molto amico e con cui ci sentiamo molto anche per lavoro, in barba agli stereotipi che dividono nord e sud.
A cosa si deve il grande successo in televisione della cucina?
Una delle ragioni è sicuramente che si tratta di programmi che costano poco e piacciono molto al pubblico e agli sponsor. È giusto che ci siano, anche se forse si sta esagerando. Fino ad alcuni anni fa, però, di cucina quasi non si parlava. Ed era un peccato perchè in Italia ogni zona ha qualcosa di interessante da proporre dal punto di vista gastronomico. Credo che ciò che attira i telespettatori sia la possibilità di prendere uno spunto, imparare delle tecniche. Per questo non apprezzo molto i programmi in cui ci sono dieci minuti di cucina vera e cinquanta minuti di altre cose. Però capisco che alla gente piaccia anche ascoltare delle storie.
L'atmosfera in cucina è davvero come viene rappresentata nei reality?
Non proprio, anche se in effetti ogni tanto qualche urlo scappa. Tante volte è una questione nervosa, perchè è un lavoro che ti mette sotto pressione per riuscire a finire tutto nei tempi e modi giusti.
Io non voglio nemmeno essere chiamato chef. Anche se ogni tanto un po’ “sergenti di ferro” bisogna esserlo per riuscire a coordinare tutto. Per esempio, in genere mi arrabbio quando vedo che una persona non segue le indicazioni tecniche date. Se però è stata trovata un’altra strada e alla fine il risultato è migliore, penso sia giusto ammetterlo. Finito il lavoro passa tutto sedendosi insieme a bere qualcosa. Qualunque cosa succeda, non bisogna portarsela a casa. Uno deve andare a dormire tranquillo, l’importante è parlarsi, confrontarsi.
In giro per l'Italia, qual è il piatto che la gente associa al Friuli?
Al di là del vino, del Monatasio e del prosciutto di San Daniele, il piatto più conosciuto è il frico, anche perchè si comincia a trovarlo in giro per l'Italia già pronto. Ad attirare di più, in particolare, è quello con le patate e ho saputo che un'azienda ne sta vendendo molto in Sicilia.
Chef uomini e chef donne. Come sono gli equilibri?
Mi accorgo quasi sempre se c'è una donna in cucina. Perchè c'è una “gentilezza” in più nel piatto, un modo diverso di vederlo rispetto all'uomo. Non dico che sia una questione di delicatezza, è una sensazione, un qualcosa di più aereo, più pulito. L'uomo tende a fare il piatto un po' più forte. Storicamente questo è stato un lavoro riservato agli uomini perchè era molto faticoso fisicamente. Inoltre la donna era più condizionate dagli impegni famigliari. Una problematica che c’è ancora in qualche misura, ma io tifo affinché ci siano sempre più chef donne, perché hanno davvero una sensibilità diversa.
Territorio e cucina, secondo lei hanno un rapporto indissolubile?
Sono legatissimi. L’ho capito andando in giro, soprattutto all’estero. Alla fine i ricordi più belli legati alla gastronomia sono le tipicità di un territorio. Mi è capitato di andare nei Paesi Baschi, dove c’è stata una grande evoluzione della cucina, con grandi cuochi. Tuttavia, mentre ricordo ancora una serie di piatti tipici, dopo un mese ho dimenticato tutti quelli più innovativi, anche se inizialmente mi avevano impressionato. Questo vuol dire che abbiamo un legame con il territorio e la tradizione che rimane nella nostra memoria.
Prodotti a chilometro zero. Secondo lei è un approccio corretto per il benessere e la salute della persona?
Sì e lo sarà sempre di più. Anche perché, oltre a creare un’economia in una piccola area, è giusto usare i prodotti locali. Si utilizza qualcosa di molto fresco, che non fa centinaia di chilometri su un camion, e in più si mangia alimenti stagionali di cui abbiamo bisogno.
Si accorge subito quando ha di fronte un giovane di talento o c’è bisogno di tempo perché emerga?
Di solito sì. Anche se delle volte mi è capitato di sbagliarmi perché, se inizialmente colpisce la tecnica, alla fine fa strada chi è entusiasta e soprattutto curioso. Un cuoco deve esserlo e deve avere la voglia di sperimentare, di creare cose nuove. È questa curiosità che ti dà una spinta in più, l’energia per sopportare ore di lavoro e la voglia di trasmettere nel piatto le sensazioni che provi.
In cucina è positivo o negativo il mescolarsi di culture diverse?
Credo sia un fatto positivo, è un elemento di ricchezza. Se c'è qualcosa che esalta un piatto o una tecnica che aiuta a prepararlo non avrebbe senso rinunciarci. Prendiamo la tipica pentola cinese, il wok, io lo uso molto per scottare le verdure, perchè concentra molto bene il fuoco al centro.
Cinque parole per descrivere il senso della convivialità.
Una è sicuramente “amicizia”, perchè un tavolo deve racchiudere questo sentimento. Poi direi “famiglia”, perchè abbiamo bisogno di ritrovarci e la cucina crea relazioni. Un'altra parola che mi viene in mente è “buongiorno”, perchè abbiamo bisogno di cortesia che ci aiuti a vivere le nostre giornate. Un altro ingrediente indispensabile attorno a un tavolo è la “curiosità” che mi ha aiutato molto nella vita, spingendomi a imparare e migliorare. Infine penso a qualcosa che ci proietti nel “futuro”, che ci spinga a fare un passo in avanti, senza perdere quello che ci portiamo dietro, ma facendoci guardare in modo positivo al domani.
Cosa consiglierebbe a un ragazzo che volesse intraprendere il lavoro cuoco?
Innanzitutto dovrebbe essere molto curioso. Poi una cosa che dovrebbero fare i cuochi in questo momento, soprattutto finchè sono giovani, è riuscire a staccarsi dalla famiglia e, dopo aver studiato, andare in giro per l'Italia e all'estero a fare nuove esperienze. Magari si ritorna, perchè le radici sono qui, ma è importante andare a vedere che cosa c'è “fuori”.
Che orari fa?
Comincio più o meno verso le 9 - 9.30 del mattino e finisco verso le 15.30. Faccio uno stop e poi riprendo verso le 17.30 fino a mezzanotte. Ma non mi pesa. Tante volte faccio anche orario continuato perchè nel pomeriggio mi metto a provare dei piatti nuovi, a scrivere ricette o mi occupo dei fornitori. Forse questa è la ragione per cui non mi sono sposato e per cui tanti ragazzi, dopo aver provato un paio d'anni questo mestiere, lo abbandonano.
Cucina e sprechi. Come si organizza? Butta o ricicla?
Cerco di fare meno sprechi possibile. Qualche anno fa, per esempio, mi sono messo in testa di utilizzare anche la parte bianca interna delle zucchine che in genere viene buttata. Anche perchè mi sono documentato è ho scoperto che contiene molto amido e adesso ci faccio una purea che mi serve per legare le salse in modo molto naturale. Purtroppo in cucina si scarta tanto ed è un peccato, oltre che un costo.
La cosa più bella del suo mestiere?
Quando un amico o un cliente mi fa un complimento, mi dice che gli è piaciuto quello che ho cucinato. È una cosa semplice, un riconoscimento immediato che rallegra tutta la giornata e che in altri lavori è più difficile avere.
Quanto conta la presentazione di un piatto?
È importante e bisogna sempre cercare di creare qualcosa che sia bello anche visivamente, ma non eccessivamente barocco. Inoltre non bisogna dimenticare che la guarnizione deve sempre essere un fine del piatto, come mi ha insegnato Gualtiero Marchesi. Deve essere qualcosa che si mangia e che sia collegata al piatto, che ha un significato, non fine a se stessa.
Ha cucinato per qualche personalità importante? Può raccontarci qualche aneddoto?
Una volta ho cucinato per Eros Ramazzotti senza saperlo, nessuno si è accorto che fosse in sala. Lo abbiamo scoperto qualche giorno dopo, quando un nostro cliente, che lo conosce, ha detto di averlo incontrato e che gli aveva parlato molto bene del mio ristorante, descrivendogli la cena che gli avevamo servito. La cosa più difficile, però, è far da mangiare per uomini politici, presidenti, ambasciatori, soprattutto per tutta la scorta che li accompagna. Un paio d'anni fa è venuto da noi un ambasciatore israeliano e due giorni prima i servizi di sicurezza hanno controllato tutta la nostra casa, dalle prese elettriche alle camere.