Da Chernobyl a Fukushima, dalla Cina alla Russia, l'obiettivo di Pierpaolo Mittica racconta la distruzione dell'ambiente e le storie dell'umanità che lo subisce
Ex residenti che rientrano per l'ultima volta nelle loro case per ritirare i loro averi, città evacuata di Tomioka, zona di esclusione di Fukushima, Giappone, 2011
I suoi reportage lo hanno portato a documentare l'impatto degli incidenti nucleari di Chernobyl e Fukushima, l'inquinamento devastante di zone della Russia e della Cina, la drammatica realtà dei rifugiati nei campi profughi della Thailandia e dei ragazzini che vivono nelle discariche del Bangladesh.
Le sue foto sono comparse su importanti testate italiane e internazionali come l'Espresso, Internazionale, The Guardian o il National Geographic, e il documentario “La zona”, realizzato assieme ad Alessandro Tesei e dedicato all'area contaminata attorno a Chernobyl, è stato distribuito recentemente dalla piattaforma Amazon Prime Video.
A “Distanza minima” abbiamo incontrato il fotografo e documentarista pordenonese Pierpaolo Mittica.
Come ha iniziato ha fare fotografie?
Avevo circa 12 anni quando mi è scoppiata la passione della fotografia ed è nata in famiglia. Mio zio, Alfredo Fasano, è un fotografo professionista, mi ha messo una Polaroid in mano e mi ha detto prova a fotografare. Mi sono appassionato alla fotografia di viaggio e quindi ho iniziato a viaggiare e a fare fotografie.
Nel 1994 stavo facendo un viaggio turistico e mi trovavo a Danang, una città nel centro del Vietnam. Un giorno sono andato verso la periferia e sono entrato in una bidonville. Mi sono reso conto delle condizioni terribili in cui vivevano quelle persone e ho capito in quel momento che la fotografia poteva essere importante per raccontare la vita delle altre persone, non la mia.
Da lì in poi ho iniziato ad occuparmi di tematiche sociali e ambientali.
Ha avuto dei maestri?
Oltre a mio zio ho avuto grandissimi maestri locali, come Giuliano Borghesan, che aveva la bottega vicino a casa mia, dove andavo quasi ogni giorno. E poi ho avuto dei maestri di livello internazionale come Naomi e Walter Rosenblum: la più importante storica della fotografia mondiale e uno dei più grandi fotografi americani.
Quali competenze sono necessarie per la sua professione?
Tantissime, nel senso che fare il fotogiornalista richiede una preparazione a 360 gradi. Non serve solamente saper fotografare, ma bisogna anche avere una enorme capacità di progettazione. Per i lavori che faccio in genere ci vogliono almeno sei mesi di preparazione, di documentazione sulla storia che andrò a raccontare, di ricerca dei contatti. Bisogna conoscere bene le tradizioni, gli usi e i costumi, il contesto sociale del Paese in cui si andrà.
Ci sono scuole per diventare fotografi?
Quando ho iniziato io ce n'erano poche. Uno dei precursori in questo senso è sicuramente stato il Craf, il Centro di ricerca e archiviazione della fotografia di Spilimbergo. È proprio lì che nel 1991 ho conosciuto i Rosemblum. È stato il mio primo master di fotografia dove ho potuto conoscere un altro grande maestro, CharlesHenri Favrod, che mi aiutato tantissimo. Oggi invece ci sono tante scuole di fotografia, di vari livelli e ci sono tantissimi fotografi che insegnano. Anch'io lo faccio in una scuola che si chiama Musa fotografia a Monza.
Il fotoreporter Pierpaolo Mittica
Ci sono dei fotografi a cui si ispira, che ammira in modo particolare?
I miei punti di riferimento costanti, sono il mio grande maestro Walter Rosemblum e i grandi che hanno fatto la storia della fotografia come Sebastiao Salgado. Poi ce ne sono tanti bravissimi, anche tra i nuovi che emergono ogni anno, i cui lavori sono per me una fonte di ispirazione continua.
Preferisce il digitale o l'analogico?
Ci sono pro e contro. Ho iniziato in analogico e fino al 2007 ho fotografato in pellicola. Aveva un fascino enorme, la qualità era molto alta e la stampa analogica dava una carattere tridimensionale, una grande profondità all'immagine. Adesso il digitale è arrivato a una qualità molto elevata e poi le testate giornalistiche richiedono le foto subito e non ci sarebbe proprio il tempo per poter sviluppare i negativi e stampare come prima. Inoltre con il digitale puoi vedere le fotografie subito, puoi capire già a fine giornata quello che hai fatto bene e quello che sarebbe meglio rifare.
Qual è la sua opinione sul “fotoritocco”?
Il fotoritocco è demonizzato da tanti, ma è sempre esistito. In camera oscura si faceva fotoritocco anche con il bianco e nero: quando sviluppavi le fotografie sceglievi l'intensità del contrasto, la luminosità, cosa mascherare e cosa far risaltare. Con il digitale del resto il fotoritocco è necessario, perché i file in formato raw che si ottengono con le fotocamere professionali sono “grezzi”: non hanno saturazione, contrasto o luminosità.
“Ritoccarli” è indispensabile e significa solo riportarli alla loro originalità. In ogni caso noi fotogiornalisti abbiamo un codice etico che ci permette di rielaborare le foto solo fino a un certo punto. Possiamo lavorare sulla luminosità, sulla saturazione, sul contrasto e su pochi altri elementi, per riportarle a quella che era la realtà che abbiamo fotografato. Non possiamo andare oltre.
Ci sono soggetti che preferisce in modo particolare?
Quando racconto una storia le persone sono sicuramente il soggetto fondamentale perché queste persone, nelle storie che racconto, subiscono qualcosa: a Fukushima hanno subito un incidente nucleare, a Magnitogorsk l'inquinamento dell'acciaieria, in Cina l'inquinamento del carbone... Sono tutte persone vittime di una situazione e sicuramente diventano i protagonisti principali della mia fotografia. Oltre a loro chiaramente c'è anche il paesaggio, spesso devastato da questo inquinamento. Sono due situazioni diverse.
In che senso?
Quando fotografo il paesaggio è un momento anche contemplativo, nel senso che spesso ti ritrovi a guardare questi paesaggi che sono enormi, giganteschi, infiniti, devastati.
Fanno veramente impressione e quei momenti diventano un'occasione di riflessione, qualcosa di molto intimo, molto personale, mentre l'incontro con le persone è un momento di condivisione. Prima di iniziare a fotografarle ci metto molto tempo, perché voglio sentirle raccontarmi la loro storia, voglio conoscere quello che hanno vissuto. Parlo tantissimo con loro e spesso vivo anche come loro, nel senso che vado a casa loro, cerco di farmi ospitare, perché solamente vivendo come loro riesci a raccontare nel miglior modo le loro storie.
Che differenza c'è tra un fotografo e un fotoreporter?
Tecnicamente il termine fotografo include tutti, qualsiasi tipo di fotografo, mentre il fotoreporter è una specializzazione della fotografia. È il fotografo che racconta le storie, è quello specializzato nell'andare in giro per il mondo, o anche semplicemente sotto casa, a cercare delle storie per raccontarle con la fotografia e anche con i testi, perché spesso il fotoreporter è un fotogiornalista. Il suo obiettivo è riportare a un grande pubblico le piccole e grandi storie che accadono nel mondo.
Quali sono state le ragioni che l'hanno spinta a intraprendere questa professione?
All'inizio, come dicevo, è stato quello scatto in quella bidonville di Danang che mi ha fatto capire quanto è importante la fotografia per raccontare la vita degli altri.
Il fatto di occuparmi di ambiente è nato da quando ho iniziato a raccontare Chernobyl, nel 2002, perché lì pian piano mi sono reso conto che la problematica maggiore che ha l'umanità è proprio l'ambiente, l'inquinamento e i suoi effetti. All'epoca non si parlava tanto dei cambiamenti climatici, anche se erano già in atto, mentre adesso gli effetti sono sotto gli occhi di tutti.
Come decide l'argomento per un reportage?
Qualcuno mi viene commissionato, ma la maggior parte degli argomenti me li scelgo. Quando ho finito una storia, inizio a leggere, a ricercare cose che possono interessarmi. In genere scelgo di pancia, nel senso che se un argomento mi prende emotivamente è quello giusto da fare. Alle volte conta anche la casualità; nel senso che vengo a conoscere un argomento attraverso incontri con persone che mi fanno conoscere una realtà che mi incuriosisce. Generalmente cerco di raccontare storie che la grande stampa e i media mainstream non affrontano, perché credo sia importante dare voce a chi non ha voce, a chi non può far sapere la propria condizione.
Come entra in contatto con i luoghi e le persone?
Quando decido di andare in un luogo devo cercare dei contatti, delle persone sul posto, che si chiamano fixer. Il fixer è una figura estremamente importante che conosce il luogo, che sa come muoversi, che sa come avere i permessi necessari, come entrare nelle situazioni e metterti in contatto con le altre persone, inoltre ti fa anche da interprete, perché spesso nei posti dove andiamo si parla solo la lingua locale. È determinante perché ha il compito di introdurti all'interno delle case, di farti conoscere le persone e di poter entrare in contatto diretto e in fiducia con loro.
Quanto sono importanti la passione e il coraggio nella sua professione?
In questa professione è fondamentale la passione, perché è un lavoro estremamente complicato, anche per le condizioni in cui si svolge. Quando sei sul campo lavori spesso 16 ore al giorno anche per un mese intero. Quindi anche a livello fisico devi essere preparato per reggere questo ritmo. Poi si cammina tantissimo, si dorme poco e spesso si saltano pranzi e cene perché magari non trovi da mangiare o non hai tempo per farlo. In molti posti ci sono poi i rischi da inquinamento radioattivo o chimico e quelli legati al comportamento delle autorità locali che spesso non vogliono che racconti certe cose. Per affrontare tutto questo non serve coraggio, ma una grande passione sì.
Con i suoi reportage ha spaziato dall'Ucraina contaminata ai Balcani devastati dalla guerra, dalle discariche del Bangladesh all'inquinamento in Cina. C'è un filo comune che lega questi luoghi?
Il filo comune sono le problematiche sociali che comportano tutte queste situazioni, spesso causate da terzi; nel senso che le persone che le vivono sono solamente delle vittime di quello che è successo, che si tratti di un incidente, di inquinamento o di una condizione sociale difficile, magari per povertà.
Negli ultimi anni, poi, sto seguendo un filo conduttore più specifico, rappresentato dal progetto che ho iniziato nel 2011 con Fukushima, che si chiama “Living Toxic” e racconta i luoghi più inquinati al mondo. È stato il filo conduttore degli ultimi dieci anni e lo sarà anche per quelli a venire.
Ha documentato i disastri di Chernobyl e Fukushima: un’aperta critica e denuncia sull’energia nucleare. Ha ricevuto critiche per questo?
Denunciare queste cose dà parecchio fastidio a chi governa questa situazione. Prima di tutto l'Agenzia internazionale per l'energia atomica e i governi che sostengono il nucleare. Sicuramente il mio lavoro non ha mai fatto piacere a tutte queste istituzioni. Diversi anni fa a una conferenza ho incontrato l'ambasciatore della Bielorussia che mi ha detto: “Sappiamo chi è lei e le faccio sapere che è indesiderato in Bielorussia”. Ma sono contento, perché il nostro scopo è quello di far arrivare il messaggio al grande pubblico e alle istituzioni per cercare di cambiare le cose.
Nel reportage su Chernobyl ha preso precauzioni per le radiazioni?
In tutti i lavori che faccio prendo sempre precauzioni. Occupandosi di ambiente e frequentando luoghi estremamente inquinati è indispensabile sapere come proteggersi. In tutti i lavori che ho fatto dove c'era un inquinamento radioattivo, come a Fukushima, ci siamo andati con tute e mascherine ad alta protezione. A Chernobyl dopo tanti anni la contaminazione è nel suolo e l'attenzione maggiore che uno deve avere è quella di indossare una mascherina FFP3, quelle che adesso conosciamo tutti a causa del covid. Poi cerchiamo di non mangiare più di tanto i prodotti locali. Anche se quando sei ospite di qualcuno devi mangiare quello che ti offre, non puoi rifiutare. Il rischio che corro è però minimo.
Si è mai trovato in una situazione in cui hai deciso di non fotografare?
Mi è capitato tante volte. Ci sono dei momenti in cui devi rinunciare alla fotografia per diversi motivi, per esempio per garantire la sicurezza non solo tua, ma anche delle persone che vai a fotografare, oppure per situazioni molto complesse o di estremo disagio. In questi casi deve prevalere non il tuo intento di fotografo di portare a casa il lavoro, ma il tuo intento di uomo di comportarti in maniera umana.
Questa è una forma di etica fondamentale nel fotogiornalismo: mai mettere davanti a tutto il proprio ego, il proprio interesse per una foto. Potrebbe essere anche la foto più bella del mondo, ma non importa, il rispetto per le persone in questo campo è fondamentale.
C'è un'esperienza particolare che ricorda più delle altre?
Nel 2003-2004, nella prima fase del mio lavoro di Chernobyl, che era incentrata sulle conseguenze sanitarie dell'incidente, ero in visita all'ospedale pediatrico per i tumori di Minsk. Stavo andando a raccontare la storia dei bambini colpiti da tumore a causa di Chernobyl e mi è capitato che siamo arrivati in un reparto dove c'era una bambina chiusa in una stanza iperbarica. Non poteva avere contatti per le difese immunitarie basse e abbiamo comunicato tramite il citofono grazie a un interprete. Come faccio ogni volta, ho parlato un po' con lei prima di fotografarla. Aveva 8/9 anni.
Le ho chiesto come si chiamava, da dove veniva e ho cercato di farmi raccontare la sua vita.
Poi lei mi ha chiesto se le avrei fatto una foto lì. Ho risposto di sì, ma ho anche aggiunto che magari un giorno sarei tornato e ne avremmo fatta una all'aperto, davanti a prato verde.
Lei mi ha guardato, mi ha fatto un sorriso enorme e poi improvvisamente si è intristita e mi ha detto: “E dove lo troviamo un prato verde?”. Di fronte a questa reazione non me la sono più sentita di fotografare, mi sono tirato indietro perché ho capito che non era il caso di fare il mio lavoro in quel momento, la situazione di questa bambina era talmente tragica che io non ero più niente di fronte a lei.
Per vedere le foto di Pierpaolo Mittica guarda il video dell'intervista o vai su www.pierpaolomittica.com