Incontro a tu per tu con Bruno Pizzul che per oltre trent'anni ha raccontato con il suo stile inconfondibile il calcio italiano e molti altri sport
Bruno Pizzul
Su internet se cerchi “la voce della nazionale” il primo nome che esce è il suo: Bruno Pizzul. Per oltre trent'anni con il suo stile inconfondibile ha raccontato il calcio italiano e molti altri sport. L'8 marzo ha compiuto 80 anni e nella sua Cormons, dove è tornato a vivere, gli hanno fatto una grande festa. Qualche settimana prima aveva accettato di venire a Casa UILDM per un'intervista a ruota libera, cui si è sottoposto con grande disponibilità e simpatia.
Qual è stata la sua prima telecronaca?
La prima telecronaca la feci nel 1969. Ero stato appena assunto dalla Rai ed ero arrivato alla sede di Milano dove ho sempre lavorato. Dopo qualche giorno mi hanno incaricato di fare la telecronaca della partita Juventus-Bologna che si giocava a Como ed era uno spareggio per arrivare alla finale di coppa Italia. Me lo ricordo anche perché, a causa di un collega, Beppe Viola, sono arrivato con un quarto d'ora di ritardo rispetto al fischio d'inizio. Meno male che allora le partite venivano date in differita e sono riuscito a rimediare.
E l'ultima?
L'ultima telecronaca con la Rai è stata la finale del torneo Arco di Trento intitolato proprio alla memoria di Beppe Viola. Era l'ultimo giorno prima della pensione e ho chiesto io di farla. L'ultima partita ufficiale per la Rai, invece, è stata l'amichevole Italia-Slovenia giocata a Trieste il 21 agosto 2002.
Lei ha un passato di calciatore tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio degli anni Sessanta, com'è cambiato il calcio da allora?
Per quanto riguarda il mio passato di calciatore, non è che mi sia ricoperto di gloria. Però ho maturato certe esperienze che poi mi sono state utili. Ho iniziato a giocare con la squadra del mio paese, la Cormonese, poi sono andato a Catania, a Ischia e soprattutto al sud. Mentre giocavo studiavo e mi sono laureato. Il calcio di allora era più ruspante, meno sofisticato. Qualcuno lo definisce calcio pane e salame, ma forse era più gradevole di quello di oggi che è diventato qualcosa che è difficile definire come sport vero e proprio. Tutti, a tutti i livelli, si divertivano. Oggi il divertimento sembra sparito, tant'è vero che la Federazione già da qualche anno ha individuato un problema molto grosso nella percentuale elevatissima di ragazzini che iniziano a giocare a calcio e dopo un po' smettono. In Friuli Venezia Giulia in particolare subiamo questa crisi di vocazioni calcistiche che è clamorosa, in una regione storicamente culla di numerosi campioni.
Qual è la più bella partita che ha commentato?
Quattro mesi dopo l'assunzione alla Rai mi mandarono a fare il quarto telecronista ai Mondiali del Messico del 1970 e lì mi trovai a contatto con mostri sacri come Carosio, Martellini, Albertini e a fare le telecronache delle partite di un campionato del mondo, cosa che solo qualche mese prima per me era impensabile. Una di quelle partite la ricordo vivamente: era il quarto di finale tra Germania e Inghilterra. Era la rivincita della finale mondiale di quattro anni prima con un goal molto discusso. Fu una partita incredibile con la Germania che, sotto di 2 goal a zero a un quarto d'ora dalla fine, riuscì a pareggiare e vincere 3 a 2 ai supplementari.
E quella che non avrebbe voluto commentare?
La finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool allo stadio Heysel di Bruxelles del 29 maggio 1985. Ero stato inviato lì per raccontare una partita di calcio e mi ritrovai a dare la notizia di 39 morti. È un dolore, una ferita profonda che rivivo ogni volta che ne parlo. È una cosa inaccettabile, e non parlo tanto da cronista, ma proprio per la mia coscienza di uomo.
Bruno Pizzul a casa UILDM
Ha mai stretto amicizia con qualche calciatore o allenatore?
Moltissime volte. Una delle cose che caratterizzava il calcio del passato era il contatto tra calciatori, giornalisti, uomini di sport e appassionati. Quando ero a Milano, per esempio, con Giacinto Facchetti eravamo frequentemente insieme e così con tanti altri. Da qualche mese sono tornato a vivere a Cormons e ho ricontattato molti dei friulani e li incontro: Massimo Giacomini, Edi Reja, Fabio Capello, quando passa da queste parti.
La nazionale italiana di calcio non si è qualificata ai mondiali del 2018 in Russia? Di chi è la colpa?
La colpa è del calcio italiano che non ha saputo adeguarsi strutturalmente a quelle che sono le esigenze di uno sport che continua a rinnovarsi. Molto probabilmente va ristrutturata l'intera impalcatura dei settori giovanili italiani.
Da dove si dovrebbe cominciare?
Da noi c'è molta buona volontà a livello giovanile, ma molto spesso si ha la sensazione che anche i criteri di preparazione non siano quelli adeguati. Con i ragazzi l'unica cosa che conta per potergli insegnare qualcosa è che chi insegna sappia giocare a calcio, lo abbia praticato, sappia fare quello che chiede di fare. Altrimenti non funziona. Chiaro che poi occorrerebbe mettere a posto anche le infrastrutture. Qui a Udine abbiamo la fortuna di avere un bello stadio e diverse strutture adeguate, ma la nostra è una situazione privilegiata. In generale i nostri stadi rispetto a quelli stranieri ci fanno vergognare. E per di più c'è la sensazione che anche nella gestione politica del calcio, le varie componenti che formano la Federazione, le quattro leghe, gli arbitri, gli allenatori, i calciatori, siano più attenti alla questione del business piuttosto che a creare una vitalità nuova per uno sport in crisi. La nazionale femminile è ancora in corsa per la qualificazione ai mondiali. Eppure se ne parla poco.
Il calcio maschile oscura quello femminile?
Il calcio di vertice non oscura solo quello femminile, ma tutto il resto dello sport, se ne parla troppo. Per quanto riguarda il calcio femminile, e qui in Friuli abbiamo delle buone realtà a partire dal Tavagnacco in serie A, è uno sport molto bello che in alcuni paesi all'estero ha un successo clamoroso. Negli Usa le partite del calcio femminile portano più spettatori di quello maschile. È uno sport giocato in maniera diversa, con meno muscolarità ma con più attenzione alla tattica e alla tecnica individuale. Vedo volentieri le partite di calcio femminile e mi diverto. Sarebbe una bellissima cosa che andassero avanti facendo una figura meno barbina di quella dei colleghi maschi.
Ci può raccontare qualcosa della sua esperienza di insegnante?
La mia esperienza da insegnante è un patrimonio che porto dentro di me e lo conservo come un ricordo tra i più cari. Ricordo quel periodo con piacere. Ho avuto la netta sensazione che quando insegni, soprattutto in quell'età tra gli 11 e i 14 anni, fai qualcosa di estremamente creativo ed importante nella formazione della personalità e della cultura dei ragazzi. Li accompagni in una fase molto delicata della loro esistenza e delle loro crescita. L'ho fatto volentieri e mi sarebbe piaciuto continuare. L'educazione è molto importante, anche se a volte sembra che abbiano più bisogno di essere educati gli adulti dei ragazzi.
E il Pizzul attore che ricordi ha?
Ho fatto qualche esperienza. Ricordo una presenza nel film con Lando Buzzanca "L'arbitro". Sono anche andato a Sofia a fare una satira di Harry Potter con Ezio Greggio. Poi c'è stato lo spot con Trapattoni in occasione dei Mondiali del Brasile, lì ci siamo davvero divertiti, perché il Trap è proprio un compagnone. È rimasto un ragazzino, ha conservato ancora l'entusiasmo di quando giocava, come molti di quella generazione lì.
Cosa pensa delle nuove proprietà straniere di squadre italiane?
È un'esperienza che all'estero hanno già iniziato a vivere da qualche anno. È una situazione che in qualche misura dispiace. A Milano, per esempio, sia il Milan sia l'Inter avevano un riferimento costante nella borghesia milanese. Ora c'è stato questo sradicamento che determina delle situazioni di imbarazzo, anche perché non sempre si sa come vanno a finire queste operazioni. Del resto i Pozzo sono andati loro a prendere una squadra in Inghilterra.
Cosa pensa del Var?
Non sono mai stato molto entusiasta. L'arbitro fa parte del gioco e in qualche misura è giusto che cerchino di aiutarlo attraverso dei supporti tecnologici. Per esempio il "goal - non goal" è fondamentale e sicuramente ci sono state anche delle situazioni in cui il Var è servito. Ma l'impressione è che lo si usi troppo spesso. Mentre bisognerebbe limitare gli interventi solo quando l'errore è clamoroso.
Bruno Pizzul a casa UILDM
Quali sono i giocatori più forti che ha visto giocare?
Ce ne sono tanti. Tra gli italiani mi viene da pensare a Rivera o Roberto Baggio, che aveva un modo di giocare straordinario. Ha avuto una carriera contrassegnata da tantissimi infortuni, anche dolorosi, a volte giocava anche soffrendo. Ma dava sempre l'impressione di divertirsi e di giocare anche per far divertire gli altri. E poi gli hanno voluto bene tutti. Renzo Ulivieri racconta sempre che quando allenava il Bologna e aveva Baggio in rosa, una volta non lo ha fatto giocare. Alla sera è tornato a casa, dove viveva con la mamma, e la madre non gli ha aperto la porta dicendogli: "A casa mia uno che non fa giocare Baggio non entra".
La squadra di club e la nazionale più forti di tutti i tempi?
La squadra di club più forte sia stata l'Honved di Budapest che poi costitutiva l'ossatura della nazionale ungherese degli anni Cinquanta con Puskas, Czibor, Hidegkuti. Per quanto riguarda la nazionale più forte, forse è stata quella del Brasile di Garrincha, Didì, Vavà, Pelè che ha vinto i Mondiali in Svezia nel 1958.
La situazione attuale dell'Udinese è figlia anche del ritiro di Di Natale e dell'abbandono di Guidolin?
È figlia del fatto che ormai è diventato difficile trovare anche all'estero delle buone opportunità. L'Udinese ha avuto dei periodi di grande splendore per la sua capacità di andare a trovare talenti in giro per il mondo. Adesso lo fanno tutti ed è più difficile accaparrarsi i pezzi più pregiati. Poi c'è il fatto che a Udine ci si è abituati bene.
Udinese a parte, come sta secondo lei il resto del calcio regionale?
A livello di società di vertice, il Pordenone sta facendo molto bene. Mentre la Triestina, che ai miei tempi era la società di riferimento, quella con più storia, sembra stia finalmente uscendo da un periodo difficile. In termini di movimento calcistico, questa una volta era una regione privilegiata. A livello dilettantistico il calcio si è un po' aggrovigliato, con tante normative, tante spese... Tant'è vero che hanno grande successo campionati come il Collinare, dove i ragazzi giocano ma senza tanti obblighi e tante pressioni. Sono amici che giocano al calcio in maniera più spensierata. Inoltre oggi, oltre ad esserci meno bambini, molti giovani fanno anche altri sport. E questo è un bene per la cultura sportiva generale. Quando ci sono le Olimpiadi, in rapporto al numero di abitanti, il Friuli Venezia Giulia è la regione che dà più atleti che rappresentano l'Italia nelle varie discipline sportive.
Le hanno mai chiesto di non riferire qualcosa che sapeva?
In questi termini non è mai successo. All'inizio della mia carriera mi alternavo con Carlo Sassi alla moviola della Domenica sportiva. Era un modo di gestire la moviola molto più asettico di adesso. In genere ci limitavamo a far vedere le immagini senza dare giudizi del tipo era rigore o non era rigore. Una domenica in Cesena-Juventus, sullo zero a zero, Bettega si avvicina all'area di rigore e Cera, grandissimo libero, lo affronta. Arriva sul pallone, ma Bettega finisce a terra. Non era fallo, ma l'arbitro diede il rigore alla Juventus. La sera in trasmissione il conduttore, Frajese, ha insistito perché dicessi la mia opinione: ho ceduto è ho detto che il rigore non c'era. Dieci secondi dopo è arrivata la telefonata di Boniperti che annunciava che per sei mesi nessuno della Juve sarebbe venuto a parlare alla Domenica Sportiva. Poi Boniperti mi ha chiamato privatamente e mi ha detto: “Bruno, sai che ti voglio bene, ma non possiamo permettere che tu dica che ci danno i rigori anche quando non ci sono”.
Oltre al calcio quale altro sport le è piaciuto di più commentare?
Mi è sempre piaciuto tantissimo il ciclismo e ho fatto anche qualche telecronaca, ma poche perché De Zan, che era il titolare della cattedra, era molto geloso. Mi piaceva raccontare la pallavolo, il canottaggio, le bocce, che sono poco considerate e, invece, giocate a livello agonistico, sono straordinarie. Ho fatto telecronache un po' di tutto, perché soprattutto i primi anni, alle Olimpiadi si andava in quattro o cinque cronisti e bisognava occuparsi di tutte le discipline.
Quali sono il suo piatto e il suo vino preferiti?
Sono di gusti molto semplici. Mi piace tanto la pasta e fagioli, anche perché riflette la caratteristica principale della cucina italiana, essere in realtà una cucina territoriale. E la pasta e fagioli, ovunque vai, anche a distanza di pochi chilometri, la fanno in modo diverso. Per quanto riguarda il vino sono un bianchista. Molti vignaioli del Collio, dalle mie parti, hanno iniziato a vinificare usando diversi uvaggi che mi ricordano molto il vino bianco di una volta.
Se Maradona, Van Basten e Platini fossero un vino, che vino sarebbero?
Restando sui vini italiani, Maradona potrebbe essere una delle grandi bollicine della Franciacorta, metodo classico, champenoise. Van Basten invece è un bel Picolit. Platini è troppo simpatico e un vino che mi è simpatico è la ribolla gialla. Un consiglio che darebbe a un giovane aspirante telecronista. Non me la sento di dare consigli, se non quello di essere spontanei, di rimanere se stessi, senza voler imitare qualcun altro. Per il resto i giovani telecronisti di oggi sono in genere tutti molto ben preparati, ma devono confrontarsi con un problema che noi non avevamo: la concorrenza. Certo fare le telecronache oggi è molto più difficile, perché il linguaggio televisivo è completamente cambiato. Una volta c'erano due o tre telecamere, per lo più in campo largo. Oggi i registi hanno anche 20 telecamere a disposizione e le utilizzano tutte. Quello che ne viene fuori è un mosaico di immagini e diventa difficile per il commentatore seguire questo tipo di ritmo, riuscire a fare un discorso che abbia una sua articolazione valida.
Da qualche tempo è tornato a vivere a Cormons, trasferendosi da Milano. Non le manca la vita della grande città?
Neanche per idea. Milano è una grande città ed è molto migliorata in questi ultimi anni. Ma per me è troppo moderna, frenetica. Il mio sogno è sempre stato quello di vivere in paese. Per temperamento sono sempre stato uno pigro, tranquillo. E qui c'è un ritmo della vita completamente diverso oltre al piacere di vivere a contatto con la natura, avere il senso del trascorrere delle stagioni. E poi a me piace andare in giro in bicicletta. Lo facevo anche a Milano, ma qui è un'altra cosa.