Gianni Borta, uno dei più importanti pittori friulani, racconta con passione e sincerità il suo percorso umano e artistico
La pittura di Gianni Borta è conosciuta in tutto il mondo e rappresenta tutta la sua vita. Ce lo ha raccontato in un pomeriggio di maggio, quando è venuto a trovarci a Casa UILDM, staccandosi dai pennelli e dalle tele del suo studio di Ribis di Reana in cui aveva lavorato fino a poco prima. Ne è nata un'intervista in cui con passione e sincerità uno dei più importanti artisti friulani parla di sé, del suo percorso artistico, del significato dell'arte e della bellezza nell'esistenza di tutti noi.
Chi è Gianni Borta? Si presenti con poche parole
Mi sento un portatore di colore, di felicità, che cerca l'anima, la storia, forse a volte anche l'avventura; un privilegiato perché ho avuto il dono di dipingere che considero divino. Per questo cerco di metterlo a frutto in tutti i modi possibili, per portare un messaggio positivo.
A che età ha iniziato a dipingere?
Ho sempre dipinto fin da bambino. Mio padre da piccolo mi portava in giro per i bar a fare schizzi. A Santa Lucia mi regalarono una scatola con una lampadina e un paio di pellicole di carta. Proiettavo queste immagini ai miei amichetti del quartiere di Chiavris, poi ho iniziato a farle da me, disegnando storie che mi inventavo.
A scuola i suoi disegni venivano apprezzati?
Frequentavo la prima elementare "Ippolito Nievo" di via Gorizia a Udine quando la maestra ci spiegò la storia di Cristoforo Colombo e ci chiese di fare un disegno. Quando la maestra vide il mio lavoro chiamò il preside, che, rimasto anche lui folgorato, volle esporre il mio disegno a scuola. Fu la mia prima esposizione.
Qual è stato il suo percorso di formazione? Si definirebbe un autodidatta?
Ho fatto il liceo artistico e altri percorsi di studio, ma la mia è soprattutto una formazione che è cresciuta nel tempo attraverso mostre, studi ed esperienze che ho fatto lavorando.
Come definirebbe la sua pittura?
Di fatica, emotiva. Il quadro trattiene l'energia che dai e la ritrasmette al fruitore. Il quadro ideale per me è quando la persona entra nella tela e la “vive”. Nelle mie opere c'è sempre la presenza dell'uomo. Dipingere è comunicare e si comunica con una pittura che contiene vitalità, forza, poesia. I miei quadri si basano su tre pilastri: il segno, che è la struttura, lo scheletro del quadro; il gesto, la forza con cui colpisci la tela; la materia, che è la pittura.
Osservando le sue opere si comprende che l’elemento principale è la natura, in particolare i fiori. Da dove arriva questa particolare attenzione?
Ho sempre mantenuto l'amore per la natura, per l'uomo e lo spirito e sono sempre stato coerente in questo. Il fiore, per me, rappresenta una metafora della vita. All'inizio dipingevo le malerbe dei nostri prati friulani, poi i papaveri e infine ho scoperto i fiori che rappresentano l'unità di interi paesi. Il fiore nazionale della Cina, per esempio, è la peonia, l'iris nero è il fiore della Giordania, il fior di loto quello dell'India, il poppy, un piccolo papavero, è quello della California. E così via. Viaggiando sulla scia di questi fiori ho cercato il confronto con popoli e terre lontane per riempire pagine di colore ancora vuote. È un percorso di ricerca che continua.
Nel suo percorso artistico ha sempre realizzato opere astratte?
No. Frequentando i cortili delle case dei contadini friulani, sono partito con una pittura figurativa dedicata ai temi agresti. Un mondo che oggi non esiste più. Era un neorealismo rivisitato, che rappresentava gli attrezzi di lavoro e una serie di personaggi inventati dalla mia fantasia creativa: i ladri di girasoli, i bevitori di frasca, gli amanti campagnoli. C'erano già stati artisti come Zigaina che avevano trattato questi soggetti, ma io lo facevo in modo completamente diverso. Nei bellissimi quadri di Zigaina dedicati al Cormor ci sono gli operai con le bandiere rosse, che vanno sul Cormor a fare manifestazioni, comizi. I miei personaggi, invece, andavano sulle rive del Cormor a fare all'amore.
Poi cosa è successo?
La svolta è stata negli anni Settanta quando sono andato a New York che era la capitale dell'arte contemporanea e dell'informale. Lì mi sono detto che forse dovevo uscire dai confini del Friuli, di quel piccolo mondo, che dovevo provare a fare un discorso un po' più ambizioso, più internazionale. Ho cercato una forma di espressione più libera e ho imboccato la via dell'action painting, della pittura d'azione, trovando nel fiore il tema che mi era più congeniale. Il reale, nei miei quadri, non viene mai completamente abbandonato. E il fiore mi dà esattamente questa possibilità. Anche perché se guardiamo un fiore da vicino, se lo scomponiamo come in una macrofotografia, ci rendiamo conto che è un'opera astratta. Un critico mi disse che è come se vedessi il fiore come lo vede un insetto: un caleidoscopio di colori.
Quando dice “Oggi continuo a vivere fino in fondo il mio sogno infantile” intende che fin da piccolo voleva fare il pittore o che la pittura è gioco, sperimentazione, è “il bambino che è in noi”?
Sono riuscito a trattenere dentro di me il bambino che è in ognuno di noi. Dipingere non è ritrarre, è trasformare e il bambino nasce artista ma poi, non so se a causa dell'educazione scolastica, perde questo dono che ha dalla nascita. Pertanto l'artista è colui che vede ancora il mondo con gli occhi di un bambino e mantiene la capacità di trasformare la realtà che è tipica dei bambini.
C’è un artista o uno stile che l’ha particolare influenzata?
Storicamente la pittura friulana deriva da quella veneta di Giorgione, Tiziano, Veronese. Nel Trecento, però, abbiamo avuto la fortuna che sia venuto in Friuli Vitale da Bologna, che all'epoca era il numero due in Italia dopo Giotto. Una presenza, la sua, fondamentale per la nascita di una scuola friulana di pittura che, pur derivando da quella veneta, ha un suo carattere originale, più fisico, con maggiore potenza coloristica. Se dovessi fare il nome di un artista friulano direi sicuramente Afro Basaldella.
Quali sono i suoi colori preferiti?
Sono uno studioso, un ricercatore del colore. Per dieci anni, tra gli anni ’60 e ‘70, facevo solo verdi, accompagnati dal bianco e dal violetto. I rossi sono entrati dopo, con i papaveri. Un altro colore che amo - e a cui tengo tantissimo - è il blu oltremare, così come il giallo cadmio. Li studio e li lavoro a lungo, soprattutto i colori complementari, come il rosso e il verde che è difficile mettere insieme, ma che danno una visione incredibile. Scuotono, lasciano abbagliato chi guarda il quadro, creano uno shock visivo, che è una delle cose che voglio ottenere.
L'uso del colore è istintivo o ponderato e studiato?
Andrè Breton, il padre dei surrealisti, diceva che la pittura del futuro sarebbe stata frenetica, governata dall'automatismo psichico. L'artista perde la ragione, l'abbandona. Il gesto è talmente veloce, dinamico e vitale che la ragione non lo controlla, viene da quello che hai dentro. È chiaro però che l'artista deve filtrare ciò che ha fatto attraverso la sua cultura e la sua intelligenza. La ragione si recupera dopo, ma non nell'atto creativo.
C'è un progetto, un obiettivo che guida la sua pittura quando è di fronte a una tela bianca?
Se fai un soggetto figurativo, ce l'hai davanti, hai già una traccia che ti dà il paesaggio. Ma se devi cogliere l'anima di un soggetto devi abbandonare la traccia figurativa. A me non interessa dipingere un campo di girasoli, mi interessa cogliere ed esprimere il sentimento che quel campo suscita in chi lo guarda. E questo si fa solo con una grande esperienza di figurativo e di disegno che continuo ad esercitare con l'attività grafica: disegni, acqueforti, incisioni. C'è chi pensa: non so disegnare, faccio l'astratto. Ma è esattamente il contrario perché l'astratto è più difficile.
Gianni Borta a Casa UILDM
L'artista ha già ben in mente l'opera da realizzare o questa prende forma man mano?
C'è sempre un'ispirazione iniziale, poi il quadro può anche andare in altre direzioni, L'importante è sempre arrivare al risultato, al fatto che l'opera abbia un'anima e che si possa coglierla, che l'opera comunichi, trasmetta un'emozione a chi la guarda.
Si può essere incapaci di cogliere il significato di un'opera?
Può succedere e non dipende dal grado di cultura. Ci sono persone acculturate, anche dei critici, che non hanno la sensibilità per capire un quadro che invece può capire benissimo anche una persona molto semplice.
Nella sua carriera ha incontrato diverse figure importanti del mondo dell'arte italiano e internazionale. C'è qualcuno che l'ha colpita anche per lo spessore umano oltre che artistico?
Ho fondato il sindacato artisti a Udine e sono stato per 20 anni in quello nazionale a Roma, ho creato la galleria “La Loggia”, ho frequentato il “Centro arti plastiche” e molte altre strutture culturali ed ho avuto modo di incontrare persone importanti, grandi artisti. La cosa che più mi ha colpito è che più le persone sono davvero grandi, più sono semplici e modeste. Ho capito allora l'importanza di una modestia costruttiva, sapere che non si raggiungerà mai la verità. Avere la consapevolezza di ciò che si è fatto, ma essere sempre disposti a mettersi in discussione.
In oltre 50 anni di attività ha esposto le sue opere un po' in tutto il mondo. C'è qualche esperienza che l'ha particolarmente emozionata, che le è rimasta nella memoria più delle altre?
Ne ricordo una: in Vietnam mi sono messo a dipingere il delta del Mekong che negli anni Settanta è stato teatro di guerra e di tragedie. Adesso, dove cadevano le bombe, ci sono immensi campi di fiori di loto.
Le è mai capitato che qualcuno interpretasse una sua opera in un modo diametralmente opposto o molto diverso rispetto al significato che lei aveva dato a quel lavoro?
Non mi interessa che le persone capiscano quello che volevo dire io. Tant'è vero che adesso non metterò più i titoli nei quadri, in modo da lasciare ancora più libera la fruizione dell'opera. Mi interessa ciò che l'opera provoca in chi la vede. Tempo fa mi telefona una signora e mi parla di un mio quadro che ha visto in una galleria e me lo descrive in modo fantastico, mi cita i colori, le emozioni che ha provato, poi alla fine conclude: "mi ricorderò fin che vivo di quel tramonto". Solo che non era un tramonto, ma un papavero preso dall'alto. Ma la cosa non ha nessuna importanza, perché ciò che conta sono le emozioni che le hanno dato quel quadro, quei colori. Non la realtà o la storia che rappresenta.
C'è qualche luogo, dove non l’ha ancora fatto, in cui vorrebbe esporre i suoi lavori?
Mi piacerebbe poter fare una mostra a Villa Manin.
Ha mai pensato di esporre le sue opere al di fuori delle strutture tradizionali?
L'ho già fatto in più di un'occasione. Ho fatto mostre dentro fabbriche e in altri in spazi in cui le persone non andavano per vedere i quadri, ma li incontravano quasi per caso.
Lei ha partecipato a diverse iniziative nelle scuole. Le piace lavorare con i bambini? Crede che sia importante avvicinarli all'espressione artistica?
Moltissimo e credo sia importante. Qualche tempo fa, alcune classi delle scuole medie, sono venute a trovarmi nel mio studio di Ribis. Lo hanno visitato e poi ci siamo messi all'aperto a dipingere. Ognuno aveva la sua piccola tela e i colori. Hanno subito preso in mano la situazione e hanno fatto delle opere fantastiche. Tanto che i genitori hanno chiesto alla scuola dove li avevano portati perché erano tornati a casa entusiasti.
Nell'era del digitale, dipingere con tela e colori ha ancora senso?/
La pittura non potrà mai essere sostituita dal computer, perché la pittura è un fenomeno irrazionale, nasce dentro di te. E questo un computer non può raggiungerlo.
Oltre alla pittura utilizza altre forme d’arte?
Pratico l'incisione, la grafica, l'acquaforte, il disegno.
Borta e la scrittura, le piace scrivere?
Ho realizzato, grazie a Campanotto editore, una serie di volumi che compongono il diario di viaggio di un pittore che cerca l'anima delle cose. Sono libri multimediali che raccolgono testi, disegni, fotografie e brevi video attraverso i quali restituisco le emozioni, le sensazioni, le storie legate ai luoghi che ho visitato. Ne abbiamo pubblicati quattro: “I colori dell'India”, “Alla ricerca della protea” sul Sudafrica, “Alla ricerca dell'iris nero” su Israele e la Giordania e “Padouk”, dedicato al Myanmar, la Birmania. Questa esperienza mi ha fatto capire che scrivere è come dipingere, solo che invece dei colori si usano le parole.
Cosa fa Borta quando non dipinge?
Dipingo sempre e anche quando non dipingo penso in pittura, vedo la vita colorata. Proprio perché la mia è una pittura che richiede molta energia, cerco di tenermi in forma facendo attività fisica, ma tutto è sempre finalizzato alla pittura a cui ho dato tutto e che ha condizionato le scelte di tutta la mia vita e continuerà a farlo. Perché voglio ancora migliorare e in questo campo nessuno ti regala niente. Se vuoi arrivare a dei risultati devi lavorare. Sempre.