Da giovane promessa del basket italiano o da general manager, l'amore per la pallacanestro di Davide Micalich non è mai cambiato, così come la convinzione che la vita non finisce sul rettangolo di gioco

Promessa del basket nazionale, giornalista, organizzatore di grandi manifestazioni sportive, ha portato in Friuli una mezza dozzina di eventi internazionali, dagli europei maschili under 20 ai mondiali femminili under 19.

Per quasi dieci anni general manager della società Amici Pallacanestro Udinese, ha contribuito, assieme al presidente Alessandro Pedone, a costruire il progetto che ha riportato Udine in serie A2.

Insomma, quando si dice pallacanestro, in Friuli, si dice Davide Micalich.

Quando le è nata la passione per la pallacanestro?
La pallacanestro è una passione totalizzante che mi accompagna fin da quand'ero piccolino.
In realtà la mia passione più grande è Udine, il mio territorio.
Ho iniziato a giocare a cinque anni con il primo corso di Minibasket ed è un amore pazzesco, che mi accompagna tuttora e che sto cercando di trasmettere ai miei figli.
Cerco di restituire al territorio un po' di quell'amore che il territorio ha dato a me.

Avrebbe potuto avere una carriera nel basket professionistico. Perché ha rinunciato?
A 15 anni mi acquistò la Rayer Venezia. Ero piuttosto promettente e dicevano che potevo avere davanti a me un futuro importante.
Perché non ho sfondato? È una domanda che mi pongo ogni tanto. Probabilmente non era la mia priorità.
Ho scelto di studiare e quindi ho fatto il mio percorso, ho finito il liceo e mi sono laureato in giurisprudenza. Fermo restando che l'amore per il basket è totale, non ho mai avuto nessun tipo di rammarico nel pensare che avrei potuto essere un giocatore di basket di serie A e non lo sono diventato.
È stata una scelta ponderata.

Com'è riuscito a trasformare una passione in una professione? Come si diventa general manager di una squadra di basket?
Quando sono tornato a Udine da Venezia giocavo in serie C e mi sono laureato.
Però non mi bastava, mi piaceva fare tante cose. Così ho iniziato a scrivere di pallacanestro e di sport sul “Gazzettino” e l'ho fatto per tanti anni.
Poi un giorno ho deciso di organizzare un torneo di basket all'aperto e così nel 1998 è nato il primo “Memorial Malagoli”, nella vecchia palestra all'aperto della scuola “Manzoni”. Fu un torneo meraviglioso, sempre pieno di gente. A un certo punto ero al chiosco, si avvicina una persona e mi chiede: “Cosa fai domani? Vieni su a Majano da me, che devo parlarti”.

Chi era?
Era Edi Snaidero che aveva voglia di far ripartire un grande progetto di basket sulle orme del papà. Il giorno dopo sono andato a Majano, mi ha fatto un colloquio e mi ha ingaggiato. Da lì è iniziato un percorso di esperienze e di formazione che mi ha portato fino a qui.

In cosa consiste il lavoro del general manager in una società di pallacanestro?
Per cercare di essere più semplice possibile, vuol dire questo: c'è un presidente, che è proprietario della società, che trova le risorse e le affida a un suo uomo di fiducia, che è il general manager. Questi ha il difficile compito di scegliere l'allenatore, prima di tutto, di scegliere i giocatori, di creare uno staff di persone, di trovare gli appartamenti per i giocatori, le palestre in cui farli giocare, organizzare le trasferte, recuperare ulteriori sponsor... Bisogna poi parlare con i tifosi, con la stampa.
È un lavoro ampio, che posso fare spesso in prima persona, ma ho anche bisogno di validi collaboratori che mi aiutino.


Davide Micalich in un momento dell’intervista

Qual è la decisione più difficile che ha dovuto prendere come general manager?
Io ragiono più spesso con il cuore che con la testa. E ogni tanto questo non va bene con il ruolo che ricopro.
Spesso ti trovi a prendere delle decisioni che non vorresti prendere, ma devi farlo per il bene del tuo club perché ritieni siano corrette.
I due casi in cui ho dovuto cambiare due allenatori, Luca Corpaci e Andrea Paderni, che erano due miei amici, sono stati sicuramente tra i momenti più difficili che ho vissuto.

Come si fa a scegliere un giocatore? Quanto contano le statistiche e quanto l'intuito, l'esperienza di chi seleziona?
Ho uno staff di alcune persone con cui curo questa parte dell'attività. Grazie a internet riesci a vedere i giocatori molto di più e molto più facilmente di una volta.
Quando individuo un giocatore che mi piace, giro il video all'allenatore, dicendogli che ho trovato un giocatore che mi accende qualcosa, che mi sembra interessante. Lui guarda le partite, approfondisce l'aspetto delle statistiche, fa l'analisi tecnica. Io mi fido più del mio intuito.
Ho iniziato a giocare a cinque anni, sono 45 anni che faccio solo pallacanestro. Se non sono in grado di riconoscere il talento di un giocatore a prima vista è meglio che cambi mestiere, che cambi passione.

Che “piazza” è Udine per i giocatori?
In Friuli non è facile venire a giocare. Udine è una città di centomila abitanti che molti giocatori, non solo d'oltre oceano, non sanno neanche dove sia. Inoltre, se porti uno al “Carnera”, non puoi mandarlo allo sbaraglio. Deve essere un giocatore all'altezza della nostra tradizione. Un manager deve tenere in considerazione tutte queste cose e provare a non fare degli errori. Che alla fine, purtroppo, si fanno comunque.

Può succedere che un giocatore sia contestato dai tifosi. In questi casi è l’allenatore a dover gestire la cosa o anche il general manager ha un ruolo?
L'allenatore e il manager devono essere assolutamente affiatati, parlare la stessa lingua. Se non sono allineati, si creano i problemi.
Quest'anno con Ramagli mi sono trovato benissimo, parlavamo lo stesso tipo di linguaggio ed eravamo in sintonia. In questo campionato più di una volta è capitato che qualche giocatore fosse contestato, secondo me, anche in maniera violenta o eccessiva.
L'allenatore deve difendere il giocatore sul campo, mettendolo nelle condizioni di giocare al meglio. Poi però è la società che deve difendere i giocatori fuori dal campo.
Quindi, se devo discutere, litigare con i tifosi, che sono i miei amici, la gente con cui vivo da sempre, lo faccio.

Negli anni si è molto parlato delle varie scuole di basket: la scuola slava, quella spagnola o statunitense. Esistono ancora queste “scuole” o anche il basket, globalizzato, si è standardizzato?
Sicuramente il basket si è globalizzato e le scuole hanno perso un po' di valore ed è un peccato. Però noi italiani rimaniamo sempre noi italiani, abbiamo la nostra scuola e la portiamo avanti. Dopo di che nel campionato di serie A1 ci sono talmente tanti stranieri che è difficile anche per un giovane emergere. Devi essere davvero molto bravo. In A2 è un pochino più semplice, perché abbiamo solo due americani e c'è più spazio per gli italiani. Infatti l'A2 è vista come un campionato perfetto come rampa di lancio per i giovani di talento.
La scuola slava, poi, resta un riferimento per tutti, non solo per i giocatori, ma anche a livello di allenatori. Basta pensare a Djordjevic che allena la Virtus Bologna, oppure Obradovic al Fenerbahce, Bogdan Tanjevic a Trieste: uno più bravo dell'altro.

Dal punto di vista della correttezza in campo, del rispetto dell'avversario, del rapporto con il tifo, il mondo del basket italiano oggi è più vicino a quello del calcio o a quello del rugby, dove un certo fair play rimane ancora?
Sono molto appassionato di calcio, come credo tutti gli italiani. Se posso la domenica vado a vedere l'Udinese, che è la squadra del mio cuore. Però ogni tanto, anche in questa fase qua, fai fatica a identificarti con questo grande carrozzone che è il mondo del calcio, che è un po' distaccato dalla realtà. Noi baskettari siamo più radicati nella realtà e quindi giocoforza ci sentiamo più vicini al rugby.

A questi livelli di professionismo c’è spazio per la nascita di vere amicizie o tutto si traduce in un rapporto di lavoro, regolato da contratti, procuratori…?
Il vero habitat di un giocatore di basket è lo spogliatoio più che il campo. E negli spogliatoi da bambino ho fatto amicizie incredibili. Tuttora i migliori amici della mia vita sono quelli che mi sono fatto nei primi anni di basket. È una grande famiglia.
Quindi la risposta è sì fra giocatori, e spesso sono amicizie della vita, più difficile invece tra dirigente e giocatori, anche se io tendo ad affezionarmi molto ai ragazzi che vengono da noi.

Qual è il più bel ricordo che ha, legato alla pallacanestro?
Per me i momenti più incredibili, sono due. Il primo è aver portato Udine in Serie A2, una magica serata di giugno del 2016, realizzando quello che era il grande obiettivo mio e del presidente Pedone, fin da quando siamo partite in serie C. È stato per me travolgente, quella notte non ho chiuso occhio. E poi quando abbiamo vinto il derby a Trieste, l'anno che poi Trieste è stata promossa. Non avevano mai perso in casa. Erano una corazzata. Vincemmo dopo due tempi supplementari. Solo lo sport, la pallacanestro nel mio caso, è capace di regalarti queste emozioni.


Davide Micalich

È mai stato in America a vedere l'NBA?
Non ho mai visto l'NBA dal vivo. Quest'anno, il 6 marzo, ho compiuto 50 anni. Il campionato di A2 era fermo e avevo organizzato una gita con la famiglia in America. Avevamo rotto la musina, come si dice da noi, e prenotato il viaggio, trovando anche i biglietti per andare a vedere i Los Angeles Lakers, la grande squadra del mio cuore. Ma a Monaco, quando eravamo già sulla scaletta dell'aereo, in quanto italiani, ci hanno fermati e rispediti a casa per colpa del coronavirus. È stato abbastanza umiliante e abbiamo avuto anche un po' paura.
Col senno di poi forse è stato meglio così. Ma vi assicuro che l'appuntamento è solo rinviato.

Qual è stata la miglior squadra che Udine ha messo sul parquet in tutta la sua storia?
Non ho visto la prima Snaidero, quella del cavalier Rino. Ricordo con piacere la squadra che vinse l'A2, la Gedeco 5-3-5, con James Percival Hardy e Dražen Dalipagić. Credo che anche la Snaidero nel primo anno di Pancotto sia stata straordinaria.

Qual è il giocatore più forte che ha mai visto giocare a Udine?
Ne dico tre: Charlie Smith, Larry Wright e Dražen Dalipagić. Sono tre campionissimi.
Uno diverso dall'altro. Charlie forse è il giocatore che è rimasto più negli occhi, perché è quello più vicino nel tempo. Arrivato in A2 alla Snaidero, con Boniciolli in panchina, trasformò da solo una squadra. Un giocatore fenomenale e un ragazzo stupendo. Dalipagić era una macchina da canestri, un professionista esemplare. Uno che se voleva faceva 70 punti a partita, un fenomeno. Wright è il playmaker che tutti vorrebbero veder giocare sempre nella propria squadra. Aveva classe, talento, canestro: tutto.

NBA a parte, chi è che in questo momento sta esprimendo la miglior pallacanestro?
Spagnoli e slavi, in particolare serbi e croati.

Come mai ha deciso di aprire il BH pub?
BH sta per Basketball House e dicendo questo ho spiegato tutto. Avevo voglia di creare un covo per sportivi doc. Il locale si trova all'interno del Tiro a volo di Campoformido, che è un centro sportivo di proprietà della famiglia di mia moglie. C'era questo spazio, che era chiuso da un po' di tempo e andava sistemato. L'abbiamo preso, pulito e ridipinto. L'ho dedicato al basket, come tutta la mia vita.
Abbiamo messo i megaschermi per vedere le partite, un canestro in giardino. Per me è un posto di aggregazione, dove respiri sport e dove attraverso lo sport stai insieme, guardando una partita, bevendo una buona birra e mangiando un panino.

Suo figlio Enrico a 15 anni ha esordito in A2. Che effetto le ha fatto?
Il ragazzo è bravo, ha una grande educazione sportiva. Ho cercato di trasmettergli i valori giusti. Ha un amore per la pallacanestro incondizionato e talento. Se è arrivato fino qui è solo per merito suo, non perchè è figlio di Davide Micalich.
Quest'anno, quando ha esordito, non me l'aspettavo, sono stato felicissimo per lui, ma ho cercato di contenere l'emozione per non essere invadente.


Micalich e Pedone, dalla pagina Facebook dell'APU

Come vede il suo futuro?
Ha delle qualità, ma è ancora giovane. Per me le aspettative sono che possa essere un bravo ragazzo e trovare la sua strada nella vita. Se poi diventerà un grande giocatore, sarò felice per lui. Io gli dico sempre, ed è un messaggio che do a tutti, che deve comunque saper abbinare la scuola alla pallacanestro. Finché va bene a scuola, come genitore gli darò tutto l'aiuto che posso dargli. Ma appena mi porta a casa delle insufficienze, a basket non ci va. La priorità è che sia bravo a scuola.

Eppure il rapporto tra scuola e sport in Italia non è sempre felice.
È un discorso complicatissimo. Non si è mai valorizzato fino in fondo l'attività sportiva a scuola. Anche se devo dire che adesso le cose sono molto migliorate. Ai miei tempi mi osteggiavano perché facevo attività sportiva a livello agonistico. Era visto come un limite. Chiaro che il modello americano resta inavvicinabile. Come fanno lo sport a scuola gli americani, non lo fa nessuno. Il mio sogno sarebbe di arrivare a quel punto lì, ma noi abbiamo un'altra cultura.

Quanto conta per lei la famiglia?
La mia famiglia è tutto. Mi commuovo quando ne parlo. Arrivo da una famiglia vecchio stampo, con il papà e la mamma che sono stati sposati più di 50 anni e due fratelli. La classica famiglia di una volta in cui si condivideva tutto.
Ho avuto la fortuna di trovare una donna fantastica, che mi ha assecondato in tutte le mie follie, organizzative e di vita, le mie stravaganze. Abbiamo tre figli e vivo solamente per loro. Non è un modo di dire. Credo sia comune per noi friulani, non penso di essere diverso dagli altri.
È una famiglia molto normale nella sua banalità e io, la sera, sono contento di tornare a casa.

L'intervista a Davide Micalich è stata realizzata il 12 maggio. Il 1° giugno Micalich ha dato le dimissioni dal ruolo di general manager dell'APU. A centro pagina, la foto che ha accompagnato sui social il messaggio con cui il presidente Pedone ha voluto salutare Micalich dopo il "divorzio" dall'APU con "profonda stima, immutata riconoscenza e soprattutto indelebile amicizia".

L'intervista integrale a Davide Micalich si può vedere sul Canale YouTube Uildm Udine Onlus, sulla pagina Facebook e sul sito della UILDM di Udine: www.udine.uildm.org