Passione, sicurezza, rispetto per l'ambiente e le persone: è la cultura della montagna di Guido Candolini, che dalle Alpi Giulie è arrivato fino in Nepal per promuovere un progetto di solidarietà.

Guido Candolini ha iniziato a frequentare la montagna fin da bambino e ne ha fatto la sua professione. Guida alpina dal 2005, assieme ad alcuni colleghi ha creato InMont, una realtà che offre servizi e corsi per tutte le attività che si possono fare in montagna. Partito dai sentieri delle Alpi Giulie, ha raggiunto molte cime dell'Europa e non solo, promuovendo una cultura della montagna fatta di passione, sicurezza, rispetto per l'ambiente e le persone che ci vivono. Come dimostra anche il progetto di solidarietà che porta avanti nei confronti del Nepal.

Come è nata la tua passione per la montagna?
È colpa di papà e di mamma. Spesso le passioni, che poi diventano la tua maniera di vivere, vengono da chi ti dà un'educazione, da quello che ti fanno vivere soprattutto nei primi anni della vita. I miei genitori fin da bambini ci hanno introdotti nel mondo della montagna. Certe cime delle Giulie e anche delle Dolomiti le abbiamo salite proprio con loro. Papà poi è stato anche alpinista e per certe cose un precursore.

In che senso?
Per esempio praticava lo sci alpinismo, che all'epoca non era una un'attività così frequentata da tutti. Però non ha mai arrampicato in parete, si muoveva fino alle ferrate. E con lui ne abbiamo fatte anche veramente in giovane età. Poi intorno ai 18 anni, più o meno, io e mio fratello, che ha due anni più di me, abbiamo cominciato ad arrampicare insieme.

Hai qualche ricordo delle prime cime che hai salito?
Una salita che ricordo, tra quelle che ho fatto in gioventù, è il Tricorno, il Triglav, che è la cima più alta delle Alpi Giulie ed è in Slovenia. È una gita molto lunga e anche abbastanza impegnativa, perché si affronta un percorso attrezzato, una ferrata, non proprio facile.

Altri ricordi?
Ho dei flash, come quello legato alla mia prima uscita di sci alpinismo. Di solito si fa con le pelli di foca sotto gli sci. Ma noi eravamo piccoli, avevamo otto anni o forse meno, e non avevamo l'attrezzatura. Usavamo gli sci che utilizzavamo in pista. Ricordo che salivamo con gli scarponi estivi normali, mentre papà aveva nello zaino quelli per poter sciare.

Che percorso bisogna fare per diventare guida alpina?
La guida alpina è una professione riconosciuta dalla legge. C'è un albo in Regione e per iscriversi L’intervista Una vita per la montagna Passione, sicurezza, rispetto per l'ambiente e le persone: è la cultura della montagna di Guido Candolini, che dalle Alpi Giulie è arrivato fino in Nepal per promuovere un progetto di solidarietà. serve un patentino che si acquisisce con un corso. È una sorta di scuola, dove però non ti insegnano tanto ad arrampicare, sciare o fare salite sul ghiaccio. Perché queste cose le devi già sapere, devono già far parte della tua formazione. Ti insegnano soprattutto come accompagnare le persone in montagna. Il che vuole dire curare la loro sicurezza, saper stare con loro in senso alpinistico, imparare a organizzare un'uscita pensando non alle proprie capacità, ma riuscendo a cogliere quali sono le capacità, gli interessi, le aspettative delle persone si accompagna.

Chi può accedere a questo corso?
Bisogna avere alle spalle tante scalate su roccia, gite di scialpinismo, salite su cascate, altre in alta montagna, con ramponi e piccozza, anche in quota. Insomma, bisogna avere un background abbastanza importante. C'è un esame per poter accedere al corso dove valutano la tua preparazione che deve essere a livello alto in tutte queste discipline.

In quanto tempo si diventa guide alpine?
Se si supera l'esame di ammissione, si accede al corso vero e proprio, che dura grosso modo un anno e mezzo e comprende diverse attività. Superati tutti gli esami, si ottiene il titolo di Aspirante guida alpina, che, anche se con qualche limitazione, consente già di iniziare a lavorare in Italia, imparando bene il mestiere sul campo, possibilmente insieme a qualche guida che ha l'esperienza giusta. Dopo due anni si può accedere a un ulteriore corso con esame, che dura più o meno tre settimane, e dà la qualifica di guida internazionale a quel punto si aprono le porte del mondo e si comincia anche a viaggiare.

Il mondo dell'alpinismo, sul piano professionale, sembra ancora molto maschile.
Se si guarda in termini più generali al mondo alpinistico, è vero che purtroppo resta ancora oggi un mondo molto maschile. È un retaggio storico che ci portiamo dietro e che non ha reali giustificazioni. Per fortuna oggi ci sono molte più donne che praticano l'alpinismo e c'è molta più attenzione anche su quello fanno le donne. Voglio citare la grandissima Nives Meroi che abbiamo qui in Friuli. Assieme a suo marito ha salito tutte le cime di 8.000 metri che ci sono sulla terra, in uno stile “alpino”, cioè portandosi tutte le cose dietro senza l'aiuto di portatori di campi già pronti, di una logistica che facilita la salita.

Quando fai una scalata sei completamente concentrato sul da farsi o hai modo di pensare e riflettere?
Quando salgo e c'è una situazione di pericolo o di difficoltà che va gestita, ci sono i passaggi più tecnici, sono concentrato su quello che sto facendo. Ma negli altri momenti, di fronte a certi paesaggi, a certi orizzonti, come si fa a non essere colti da altri pensieri, da altri stimoli che arrivare dalla natura che hai intorno. E in quei casi i mie pensieri vanno ovunque.


Guido Candolini in vetta

Qual è la montagna che vorresti scalare?
La mia risposta non è un nome, ma è una situazione, un insieme di tre cose che per me sono importanti. La prima è la montagna in sé, dove si trova, la sua importanza, la storia che ha avuto, l'aspetto estetico. La seconda cosa è considerare lungo quale itinerario salire una montagna.
Certe volte salire la via normale è bello, ma non così appagante come seguire una via che ha magari vissuto una storia.
Salire il Cervino dalla parte italiana mi regala molte più emozioni che dalla parte svizzera, perché ripercorrere cosa è riuscito a fare, con i mezzi dell'epoca, chi ha aperto quella via, è qualcosa di stupefacente.

E il terzo aspetto che consideri, qual è?
Perché l'alpinismo è certamente un qualcosa di personale, ma se lo vivo da solo, resta personale e finisce lì. Il bello è riuscire a condividerlo.
L'emozione che provo quando arrivo in cima sta nel poter prendere le compagne e i compagni di salita e abbracciarci, farci complimenti. Guido Candolini in vetta
Però non è la cima che mi dà soddisfazione. Certo, se non si raggiunge la cima, un po' di amaro in bocca resta, ma vuol dire che c'è un motivo e quel motivo non va mai dimenticato, perché è quello che dà ancora più valore alla montagna, alla salita e alla rinuncia.

Facendo la guida ti capiterà di ritornare più volte sulla stessa montagna. Cosa provi?
Ogni volta è una cosa diversa. La montagna non è mai la stessa, cambiano le condizioni, cambiano i compagni, le sensazioni. E poi capita di scoprire cose nuove.
Quest'anno sono salito sul Cervino, lungo la via italiana. L'ho fatta più volte, ma non avevo mai trovato “les escritures”, i graffiti lasciati nell'Ottocento dagli alpinisti Whymper e Carrel che su un pezzo di parete hanno inciso le loro iniziali. Questa volta le ho viste.

Che cos'è per te il silenzio?
Il silenzio in montagna non esiste. Il silenzio della montagna è pieno dei suoni della natura ed è bellissimo. È il suono della natura.

Le nuove tecnologie possono aiutare l'alpinismo?
Aiutano e permettono di raggiungere obiettivi che prima erano inimmaginabili, perché hanno migliorato tantissimo l'attrezzatura. E poi oggi c'è la possibilità di avere tantissime informazioni. Apro Internet, vado su Google Maps e vedo dove sono le montagne che mi interessano. È tutto molto facile, a volte troppo facile.
Perché il rovescio della medaglia è che in tanti si avventurano senza avere le conoscenze e la preparazione adeguate alle situazioni e che le nuove tecnologie alzano sempre più l'asticella delle cose possibili.

Hai mai paura durante una scalata?
Voglio avere paura, perché la paura mi fa alzare le antenne e controllare tutto quello che mi sta succedendo. La paura sana stimola l'attenzione. L'importante è che questa paura non sfoci in un timore esagerato, nel panico. In qualsiasi attività che comporta del rischio la paura è fondamentale, chi non ce l'ha rischia di più, perché non ha un limite o un punto di allarme.

Qual è la montagna che ti ha dato più soddisfazione?
Tra i tanti ho un bellissimo ricordo di una salita che ho fatto sulle Alpi Giulie insieme a Luca Vuerich, che è mancato ormai dieci anni fa. Era una salita in invernale, con neve, ghiaccio, freddo. Abbiamo aperto una via nuova, che tutt'oggi ha un bell'impegno dal punto di vista tecnico, e gli abbiamo dato il nome di Alberto, un altro nostro amico che purtroppo è caduto in montagna. E oggi pensare a questa salita e a queste due persone che purtroppo sono mancate ha ancora un gran significato.

Qual è la cima friulana che preferisci?
La cima in Friuli che esteticamente mi dà di più è il Montasio. Se vi capita di salire lungo la statale per Tarvisio, arrivati a Dogna, anche restando sulla superstrada, guardate verso destra e vedrete il Montasio.
Quella vista mi rapisce ogni volta. Anche quando è quasi completamente coperto dalle nuvole, mentre guido, sento mia moglie di fianco che mi dice “guarda dove vai”, perché giro sempre la testa per guardarlo. È qualcosa di troppo bello.

I turisti che si muovono sulle montagne, in genere, sono preparati?
Negli ambiti in cui opero io, dalle ferrate a cose molto più tecniche, tutti, in genere, hanno già una certa esperienza di alpinismo. Ognuno con la sua misura, col suo livello e col suo traguardo. C'è però tanta improvvisazione o spirito di emulazione in giro. Per cui tante volte ci sono persone che non sanno dove sono. E se non conosci i problemi, non hai la possibilità di evitarli. La preparazione è legata alla conoscenza.

Sono già visibili in montagna i mutamenti dovuti al cambiamento climatico?
Senza alcun dubbio, ovunque. Ho girato un po' il mondo e ricordo, per esempio, i ghiacciai che ho visto nel 2001 in Perù. Ci sono tornato l'anno scorso per l'ottava volta ed è tutta un'altra cosa.


Sedwa Makalu in Nepal, la festa di ringraziamento

Ci racconti il tuo rapporto con il Nepal e il tuo impegno con l’Associazione “Friuli Mandi Nepal Namasté”?
“Friuli mandi Nepal Namasté” è un'organizzazione creata diversi anni fa per dare degli aiuti ai ragazzi nella zona di Katmandu e dintorni. Conosco bene chi segue questi progetti e stanno facendo un lavoro encomiabile.
Noi viviamo in una terra che ha vissuto il terremoto. Io sono nativo di Gemona, quindi quasi nell'epicentro del terremoto del '76.
Perciò, quando, qualche anno fa, ho sentito del fortissimo terremoto che aveva colpito il Nepal, il pensiero è subito andato a tutte le persone che conosciamo là e con cui negli anni abbiamo collaborato e stretto amicizia. Con alcuni amici abbiamo deciso che dovevamo fare qualcosa per loro, così come tanti erano venuti a dare una mano in Friuli.

Cosa avete fatto?
Ci siamo rivolti a “Friuli Mandi Nepal Namasté”, chiedendo se potevamo seguire noi un progetto sotto la loro supervisione.
Abbiamo iniziato raccogliendo dei fondi che sono serviti ad acquistare delle lamiere da usare come tetti delle abitazioni in un paesino lontano da Katmandu, che si raggiunge dopo 4/5 ore di jeep e alcune ore di cammino. Siamo riusciti a costruire tetti per più di 50 abitazioni.
Dopo di che abbiamo continuato a raccogliere fondi e, andando sul posto, abbiamo capito che era fondamentale dare un aiuto anche in zone che non erano state coinvolte dal terremoto, ma che, proprio per questo, erano tagliate fuori dalla grande solidarietà internazionale che aveva raggiunto il Paese.

Dove avete deciso di intervenire?
Abbiamo saputo che nella valle del Makalu la costruzione di un ospedale si era bloccata perché non arrivavano più fondi. C'era un gruppo di volontari russi che si occupava di aiutare la ripresa del progetto. Noi ci siamo concentrati sull'acquisto di alcuni macchinari. Prima un ecografo e poi una stazione per fare delle analisi. Adesso stiamo continuando a dare supporto per favorire la vita normale dell'ospedale, garantendo tutti i medicinali di cui ha bisogno e le risorse per poter utilizzare i macchinari che gli abbiamo donato. Proprio in questi giorni le persone del posto che con noi seguono questo progetto sono state nella valle del Makalu per capire quale altro intervento potrebbero essere utile, legato all'ospedale o ad altre necessità come la scuola o qualcosa per la fornitura dell'acqua. Questo è l'aiuto che vogliamo continuare a dare con il progetto che si chiama “Un ponte tra di noi”.

Che progetti hai per il futuro?
Come guida vorrei riuscire a comunicare e a coinvolgere sempre più persone con il nostro stile dell'andare in montagna. Perché ritengo sia un arricchimento personale senza paragoni. Portarle in giro sui nostri monti, per farli conoscere sempre più, ma anche sulle Alpi e in giro per il mondo. E in questo caso la montagna diventa quasi una scusa, per andare a conoscere e confrontarsi con altre culture, altri punti di vista, altre persone. E nel confronto c'è sempre arricchimento.
E poi, in fondo, tutto l'alpinismo non è che una scusa per vivere delle emozioni.