Intervista a Sabrina Baracetti, presidente del Centro Espressioni Cinematografiche e direttore artistico del Far East Film


Sabrina Baracetti e Thomas Bertacche

Friulana, appassionata di cinema, curatrice di retrospettive ed eventi e coraggiosa imprenditrice, Sabrina Baracetti, presidente del Centro Espressioni Cinematografiche (CEC) è riuscita, assieme al collega Thomas Bertacche e a un gruppo collaudato ed affiatato di collaboratori, a portare Udine e il Friuli al centro dell'attenzione mondiale come direttore artistico del Far East Film, il festival europeo più importante sulla produzione cinematografica orientale. Grazie al suo impegno e alla sua intuizione, Udine da 18 anni può vantare un'offerta culturale importantissima, non solo incentrata sul cinema, ma anche sul confronto - incontro tra culture così differenti. L'abbiamo incontrata a Casa UILDM dove si è presentata puntualissima.

Cominciamo con il raccontare chi è Sabrina Baracetti...
Sono prima di tutto un'appassionata di cinema. Ho studiato all'università di Trieste quando ancora non c'era un vero e proprio corso di laurea in questa disciplina. Lì l'incontro fatale è stato con il mio docente di storia del cinema, Alberto Farassino, un grande critico scomparso prematuramente che all'epoca scriveva per Repubblica. Era una persona visionaria che ti dava la possibilità non solo di studiare la materia, ma anche di approfondire le tue passioni, le tue idee. Finito il percorso di studi, ho iniziato a collaborare con un'associazione culturale di Udine, il "Centro Espressioni Cinematografiche", cui in quel periodo si erano avvicinati alcuni altri giovani.

Col tempo la passione è diventata professione...
È così. In pratica ci siamo creati uno spazio all'interno di una realtà, il CEC, che aveva un storia gloriosa alle spalle, ma che stava attraversando un momento particolare. Stavano nascendo nella periferia cittadina i multiplex e quindi l'arrivo di persone nuove e giovani, che potevano dare un'energia in più, è servita anche al circolo per reinventarsi e rinascere in un altro modo. Per esempio siamo diventati più competitivi perché abbiamo iniziato a mostrare i film nuovi in contemporanea con l'uscita a livello nazionale, cosa che prima non avveniva.

Quella di quest'anno è la diciottesima edizione del Far East Film. Com'è nato il festival?
In un certo senso è nato per caso. A metà degli anni Novanta abbiamo cominciato a fare degli studi sul cinema popolare italiano, realizzando anche dei festival dedicati alla commedia italiana degli anni Cinquanta. Eravamo molto focalizzati sul prodotto popolare, sul cinema di genere in Italia, quello che riempiva regolarmente le vecchie sale da 800 posti. Abbiamo avuto incontri con personaggi come Monicelli, Risi, Sordi, la Pampanini, protagonisti di un'epoca fantastica per il nostro cinema. A un certo punto ci siamo chiesti dove nel mondo si producesse così tanto cinema legato ai generi cinematografici e la risposta è stata facile: Hong Kong. Quella di Hong Kong, all'epoca, era un'industria cinematografica che dava ampio spazio ai nuovi esordi. La gente riempiva le sale, tutti parlavano di cinema e c'era un vero e proprio star system. Idealmente era un po' quello che era avvenuto in Italia negli anni Cinquanta. Così nel 1997 siamo partiti per la città asiatica. E lì, un po' persi, perché non avevamo le conoscenze e i punti di riferimento che ci siamo costruiti negli anni, abbiamo cominciato a incontrare produttori e registi, gettando così le basi di quello che poi sarebbe diventato il Far East. Nel 1998 ci siamo inventati l'Hong Kong Film festival, che è stato l'edizione numero zero di Far East, portando al cinema Ferroviario ospiti incredibili come Ringo Lam, Johnnie To, Peter Chan, Anita Yuen, che erano molto incuriositi dalla nostra volontà di capire che cosa avveniva nel cinema dall'altra parte del mondo. Da qui l'idea di inserire nel nostro progetto anche altre cinematografie, come quella coreana che stava scoppiando in quel momento, il Giappone, le Filippine, l'Indonesia, la Tahilandia e, naturalmente, la Cina continentale.

Il registro informale e un po' pop del festival che si svolge a Udine a fine aprile è voluto?
Sì. È una scelta ragionata che nasce anche da come siamo noi, da come ci esprimiamo. Viviamo in una città piccolissima perciò una delle caratteristiche del festival è quella di offrire un'ospitalità un po' familiare, casalinga e spontanea. E poi alla fine parliamo di cinema popolare. Forse ci sono delle persone che hanno dei pregiudizi, perché pensano che meriti di essere studiato solo il cinema d'autore, quello prodotto per i grandi festival internazionali. Il nostro approccio invece è completamente diverso. In fondo l'industria cinematografica è un'industria e deve confrontarsi con il pubblico. Sta poi al pubblico premiare alcuni di questi film. Per noi il Far East è soprattutto una grande festa che condividiamo con le star. Questo non significa che al festival non ci siano momenti di approfondimento. Lavoriamo con grandi studiosi del cinema internazionale, per cui l'aspetto scientifico e di ricerca è sempre stato garantito. Tant'è vero che abbiamo realizzato diverse pubblicazioni e libri che sono stati anche adottati in diversi corsi di laurea di tante università in giro per il mondo. Questo è il nostro modo di essere.

E gli ospiti internazionali come vivono il festival?
Gli ospiti sono molto colpiti da questo clima, si sentono a casa, sentono il calore del pubblico. E il pubblico del Far East in questo senso è fantastico e ha un ruolo fondamentale. Noi non abbiamo una giuria, contiamo su quello che il pubblico decide e vogliamo mantenere questa vocazione popolare del festival. Nelle altre rassegne internazionali spesso la platea è formata da professionisti, giornalisti, critici, che non hanno lo stesso tipo di slancio emotivo e l'atmosfera è spesso diversa. Sono festival dove il pubblico non è così partecipe, non rumoreggia, non applaude alla fine. Invece al Far East succede, ed è uno dei motivi per cui gli asiatici amano ritornare a Udine. Inoltre il festival ha una grande reputazione, un suo prestigio, e garantisce anche un ritorno commerciale. Tutti motivi validi per venire qui. La selezione la curiamo tantissimo perché più siamo capaci di essere selettivi e offrire il meglio di quello che vediamo, più diventa ambito partecipare.

 

C'è mai stato qualche incidente di comunicazione al festival? Qualche momento imbarazzante?
Incidenti veri e propri no. Ma l'anno scorso a vincere il festival sono stati tre film coreani. Solo che gli ospiti coreani erano già dovuti partire tutti, e al momento dell'annuncio in sala c'erano solo attori e registi giapponesi. Per noi c'è stato un momento di imbarazzo, ma siccome decide il pubblico, da perfetti giapponesi non hanno mostrato alcuna reazione, anzi, hanno applaudito i premiati assieme a tutti gli altri!


Sabrina Baracetti a Casa UILDM con alcuni dei redattori di WheelDM

Come vengono scelti i film in programma per ciascuna edizione
C'è una squadra di collaboratori che fanno parte del gruppo di selezionatori che vivono nelle capitali asiatiche tutto l'anno. Grazie alle loro segnalazioni facciamo una prima selezione vedendo circa 400 film, per poi arrivare a una scelta finale di 60 titoli. I consulenti in totale sono dieci, noi in ufficio siamo in cinque e ci confrontiamo continuamente.

Tra i grandi festival cinematografici, quale rappresenta di più la sua idea di cinema?
Tutti i festival sono importanti. Sono spesso fondamentali come trampolini di lancio per tanti registi. Quello che mi dispiace è che a volte queste grandi competizioni internazionali puntino solo sui grandi nomi che danno garanzie. Mi piacciono quei festival che riescono anche ad avere uno sguardo sui nuovi talenti che stanno emergendo, che danno una possibilità a nuovi registi, a nuove visioni del mondo. L'Oscar per il miglior film straniero, ad esempio, è fondamentale a scoprire cinematografie poco accessibili o che non avremmo mai considerato.

L'aspetto della disabilità è presente nel cinema orientale e in che forma?
Ci sono molti film che toccano questo argomento, però il tema rientra all'interno dei vari generi, come le commedie o i melodrammi. In Europa, per lo più, se ne parla in prodotti d'autore, pensati per un pubblico limitato o per i festival, a parte un caso, quello del film francese "Quasi amici" che ha avuto un grande successo anche in Oriente. Gli orientali sono meno preoccupati di noi nel parlare della disabilità e collocano l'argomento in un contesto più ampio, più popolare, raggiungendo un pubblico molto vasto.

È un po' la chiave di "The Special need", il film di Carlo Zoratti distribuito dalla Tucker, la vostra casa di distribuzione, giusto?
È un film che rappresenta bene anche il nostro punto di vista: raccontare un tema così importante per tutta la società, così forte, attraverso un approccio leggero. Come capita nei film orientali, l'argomento della disabilità entra in una commedia senza scardinarne la struttura.

Perché la produzione cinematografica occidentale attinge così tanto da quella orientale?
Hollywood è spesso a corto di storie e per questo è sempre stata attenta a scoprirne di nuove che funzionano, con film che hanno grande successo in Oriente per poi creare dei remake.

E ce ne sono stati tantissimi, come la trilogia horror "The ring", che è stata completamente rifatta in stile hollywoodiano, anche se senza ottenere lo stesso successo dell'originale del giapponese Hideo Nakata.

Moltissimi produttori lavorano sia a Hollywood sia in Oriente e creano una sorta di ponte tra questi due poli della cinematografia mondiale. A volte Hollywood va direttamente a prendere il regista orientale e lo porta a Los Angeles per rifare, con attori occidentali, lo stesso film Qualche volta va bene, qualche volta no. John Woo a suo tempo fece la scelta di trasferirsi per un po' di tempo negli Stati Uniti, salvo poi decidere che per la sua carriera professionale forse era meglio ritornare a Hong Kong. Un altro regista come Johnnie To, invece, che il Far East ha contribuito a far conoscere in Occidente, è stato più volte corteggiato da Hollywood, ma non ha mai voluto andarci. È indubbio che Hollywood guarda con molta attenzione alle storie orientali, soprattutto a quelle popolari.

Come mai nel Far East Film non c'è uno spazio dedicato ai film d'animazione?
Il mondo dell'animazione meriterebbe degli studi specifici e uno spazio amplissimo che non sarebbe possibile trovare senza snaturare la struttura del festival, che vuole raccontare in sessanta film la produzione cinematografica orientale di un intero anno. Senza contare che in Italia ci sono già degli eventi dedicati in modo specifico all'animazione, come il Future Film Festival che si tiene a Bologna in marzo, che coprono benissimo questo segmento.

Organizzate dei corsi per aiutare il pubblico a "leggere" i film del Festival, per fornirgli delle chiavi di lettura?
Durante il festival c'è la possibilità di incontrare i registi o gli esperti ogni giorno, ci sono incontri di approfondimento che offrono la possibilità di capire meglio la proposta. Prima del festival, abbiamo fatto delle iniziative, ma non abbiamo ipotizzato un percorso di avvicinamento. È una cosa che dovremo tenere in considerazione. Anche perché per noi il momento dell'annuncio della selezione a livello internazionale è il momento più importante per mantenere la reputazione del festival. Quando annunciamo i 60 titoli selezionati usciamo su tutte le pagine web e i principali giornali in Oriente. C'è molta attesa e certe cose non le sveliamo fino al momento dell'annuncio, quindi fare dei percorsi di avvicinamento a film non ancora annunciati sarebbe difficile. Però è vero che a livello locale sarebbe importante e dovremmo sfruttare di più uno dei nostri collaboratori, Giorgio Placereani, che è il più importante critico che abbiamo in Friuli e con cui costruiamo la selezione, cercando di creare degli appuntamenti propedeutici al festival.

Quali sono le motivazioni della scelta di vietare tutte le proiezioni ai minori di 18 anni?
È un fatto puramente tecnico. I film che mostriamo, non avendo il visto di censura, dal momento che vengono proiettati un'unica volta all'interno di una manifestazione - evento, sono automaticamente vietati ai minori di 18 anni. Anche se va ricordato che ogni anno facciamo proposte specifiche per le scuole con dei titoli assolutamente adatti ai ragazzi.

Quando avete deciso di iniziare a distribuire in Italia i film del festival attraverso la Tucker, di cui lei è la direttrice commerciale?
La Tucker è una casa di distribuzione che ha due soci, il CEC e Cinemazero di Pordenone. Per quanto riguarda i film orientali la prima esperienza è stata con Departures di Yojiro Takita. È un film di cui ci siamo subito innamorati e che, nel 2009, abbiamo selezionato per il festival prima ancora che vincesse l'oscar come miglior film straniero. Ha ovviamente vinto anche il Far East, ma malgrado ciò ci siamo resi conto che nessuno dei distributori italiani aveva fatto una proposta al distributore internazionale che gestiva i diritti del film. A quel punto ci siamo buttati, pur non sapendo nulla di distribuzione internazionale, contratti e offerte. Acquisiti, dopo una lunghissima trattativa, i diritti per l'Italia, dovevamo portare il film nelle sale e anche quella era una cosa che non avevamo mai fatto. Alla fine ci siamo riusciti e tuttora il successo di "Departures", che al botteghino ha raggiunto gli 800 mila euro, è il più importante della Tucker, eguagliato solo da "Zoran il mio nipote scemo" di Matteo Oleotto. È stato davvero un colpo di fortuna, perché nessuno dei distributori italiani si era reso conto delle potenzialità di un film di quel tipo. Del resto non era facile perché si tratta di un film giapponese, in cui si parla della morte in modo realistico ed esplicito, cosa che per noi italiani non è facile da affrontare.

Con quali criteri scegliete i film da distribuire?
Il primo criterio per scegliere i film da distribuire è ancora quello alla base del successo di Departures: dobbiamo innamorarci del film. Dopo di che si tratta di capire se è possibile intavolare una trattativa economica. Un'occasione importante per distribuire film dell'Estremo Oriente è venuta da un accordo con la Rai che abbiamo concluso nel periodo in cui Carlo Freccero stava lanciando Rai4. Abbiamo pensato che il nostro prodotto era perfetto per i loro palinsesti ed era così. Questo ci dava la garanzia che i film che noi saremmo andati ad acquistare avrebbero poi avuto uno sbocco. In questo modo abbiamo potuto costruire un vero e proprio listino dedicato al cinema popolare asiatico.

Avete mai pensato di spostare il festival in un altro contesto, per esempio un multisala, o in un'altra città?
A noi interessa lavorare in Friuli perché siamo nati qui e qui ci sono le nostre radici. Ci teniamo ad avere un collegamento forte con il territorio, anche perché abbiamo due sale cinematografiche a Udine, il Visionario e il Centrale, ed inoltre qui abbiamo trovato un luogo, il teatro "Giovanni da Udine", che è uno spazio ideale in cui allestire una manifestazione come il Far East. La nostra associazione con le due sale dà lavoro a 15 persone fisse, mentre per il festival, soprattutto durante i due mesi finali, siamo circa in cento a lavorare, con altrettanti volontari. Ci piace stare qui per fare in modo che tutti possano avere una proposta culturale alla pari di tante altre grandi città italiane ed europee e vogliamo confrontarci con la possibilità di far crescere tutto ciò che è intorno a noi. Anche per questo non abbiamo mai pensato di andare via.

Quali sono le ricadute economiche e turistiche sulla città di Udine? Si potrebbero sfruttare meglio le potenzialità del Festival?
Il Festival non potrebbe esistere senza l'appoggio della Regione, del Comune e di tanti privati che sono cresciuti assieme a noi, soprattutto in questi ultimi anni. Di solito per calcolare le ricadute di questo tipo di manifestazioni si moltiplica per tre il valore del budget complessivo che, nel nostro caso, è di circa 700mila euro. Tutte le strutture alberghiere della città sono occupate da persone che arrivano qui per la manifestazione. Si potrebbe fare ancora di più se avessimo un riconoscimento esplicito della valenza turistica del festival. Stiamo crescendo anche su questo e credo che molti si stiano rendendo conto che una delle chiavi di lettura dell'oggi è proprio la cultura e che tramite la cultura si possono ottenere anche risultati concreti in termini di crescita del territorio. Un'idea sarebbe quella di unirci sempre di più anche con altre iniziative culturali per sfruttare al meglio queste potenzialità. Per esempio, subito dopo il Far East c'è Vicino Lontano e sarebbe interessante trovare il modo di creare delle sinergie, per potenziare la capacità di attrazione turistica."

Il CEC gestisce due anomali multisala in centro a Udine. Cosa ne pensate dei grandi multisala che ci sono alle porte della città?
Li rispettiamo anche se il nostro modello chiaramente è un po' diverso, pur cercando di garantire al massimo la qualità della proiezione, cosa che in passato nei cineclub non era così scontata, mentre il multiplex dava subito l'idea di un apparato tecnologico di alto livello, seppure in un contesto un po' asettico. Quello che ci distingue è che con la nostra attività vogliamo creare, com'è il caso del Visionario, un luogo di aggregazione non soltanto nostro, ma per la città, in cui la gente si può incontrare per fare tante attività che possono essere legate al cinema, ma non devono esserlo necessariamente. Tant'è vero che al Visionario ci sono una sala espositiva, una mediateca, un bar dove si può fare musica dal vivo, dove facciamo mercatini o incontri a tema. Cerchiamo di viverlo a 360 gradi. Anche il lavoro dei multiplex, in ogni caso è importante per il cinema. La cosa più bella è che la gente veda i film e si appassioni al cinema. E questo alla fine porterà più gente anche nelle nostre sale.

Qual è il suo regista preferito?
Tra gli orientali la mia passione più grande è Johnnie To. Il suo cinema, dal mio punto di vista, è quello più eccitante perché parte dal cinema più tradizionale di Hong Kong, quello di azione, di arti marziali, dei gangster movies, ma ogni volta riesce a sorprendermi. L'ultimo film che ha girato, per esempio, è un musical e anche in quel genere riesce ad essere assolutamente unico.

C'è un film o un regista che, invece, non le piace affatto?
Non saprei. Credo che sia molto più facile parlare male di un film che parlarne bene. È un po' il problema della critica italiana, soprattutto quella più giovane. Stroncare un film, ricordava sempre Farassino, è molto più facile che valutarne ed evidenziarne gli elementi positivi. Credo che un film sia un lavoro collettivo che coinvolge tante persone e che meriti sempre rispetto, perché implica sempre un lungo tempo e una grande dedizione. Stroncarlo nell'arco di una decina di righe mi pare poco rispettoso. Il mio atteggiamento è quello di cercare sempre qualcosa di positivo anche nei film meno riusciti. Non riesco a indicare un regista che non mi piace. C'è sempre qualcosa di bello in qualsiasi cosa prodotta.

Abbiamo uno stereotipo di star americana che spesso sfocia in eccessi e capricci. Anche in questo le star orientali prendono esempio da quelle occidentali?
Dipende, perché ci sono molte culture diverse. I Giapponesi, per esempio, hanno tutto un loro protocollo. Il caso più clamoroso è stato con il musicista Joe Hisaishi quando l'anno scorso abbiamo organizzato un grande appuntamento di musica legato ai film. Si è trattato di un evento che ha visto insieme a Hisaishi l'orchestra di Lubiana con 91 elementi. Hisaishi è il compositore di tutti i film di Miyazaki e di altri grandi film come Departures. Per due anni lo abbiamo corteggiato in tutti i modi, ma appartiene a quella dimensione irraggiungibile che riguarda tutto ciò che circonda lo studio Ghibli. Sono persone che a Tokio vivono in un altro mondo. Dire Miyazaki è come dire Walt Disney. Avere un'intervista con loro è un evento straordinario, non si concedono. Per di più sono giapponesi, amano la riservatezza, sono timidi, non amano il contatto fisico. Non abbiamo mai mollato anche se diverse persone di rilievo, come produttori del cinema cinese con cui ha lavorato, ci dicevano "lasciate perdere". Invece ci siamo intestarditi e siamo riusciti a farcela. Lui è venuto, ha fatto due giorni di prove a Lubjana, la prova generale al Teatro "Giovanni da Udine" e poi c'è stato il concerto. Abbiamo venduto online tutti i biglietti in 34 ore. Sono arrivate persone da tutta Europa.

È stato difficile gestire un personaggio di questo calibro?
Hisaishi ha due manager, una cinese e una giapponese, che ci hanno inviato un elenco di cose che non si potevano fare con il maestro e una serie dettagliata di richieste che andavano dal tipo di macchina che doveva accoglierlo in aeroporto fino alla disposizione della birra in hotel. Non poteva mai essere lasciato solo, doveva esserci sempre una persona che camminava davanti a lui e una dietro ad una determinata distanza. Non potevamo farlo sedere a tavola con persone che non conosceva e soprattutto vicino a lui. Tutto era pianificato nei minimi particolari e ogni minuto era organizzato. Questo è stato il massimo della dimensione da star con cui ci siamo confrontati. Anche se va detto che poi l'incontro con Hisaishi è stato meraviglioso, perché le preoccupazioni probabilmente erano più delle manager che sue. Siamo stati tutto il tempo insieme, abbiamo parlato molto e siamo diventati amici. A lui in realtà andava bene tutto.


Jackie Chan, al Far East

L'anno scorso avete avuto come ospite un'altra star mondiale, Jackie Chan. Com'è andata?
Jackie Chan è unico al mondo, perché non esiste un altro cinese così famoso, che ha lavorato in Oriente, a Hollywood, in Europa. Eppure si è rivelato la persona più disponibile che abbia mai incontrato. Ha fatto le foto con tutti, sapeva perfettamente come gestire i suoi fan, che spuntavano ovunque andasse, con grande leggerezza e con la massima tranquillità. Si vedeva il professionismo, la scuola anche di Hollywood. La capacità di essere all'altezza di ogni situazione. E questo lo abbiamo molto apprezzato, perché alla fine sembrava uno di noi.

Pensa che i recenti investimenti a Hollywood della Cina porteranno dei vantaggi al cinema orientale o sono solo operazioni di mercato e finanziarie?
La Cina in questo momento è un colosso che fa molta paura: negli ultimi dieci anni c'è stata una rivoluzione che ha sconvolto il mercato cinematografico mondiale. Le sale cinematografiche sono passate da 2.000 a 25.000 e hanno l'obiettivo di raggiungere 35.000 schermi nel giro di altri quattro - cinque anni. Questo significa che hanno anche un box office altissimo, che i film incassano moltissimi soldi e si possono permettere di ingaggiare le star hollywoodiane per film di produzione solo cinese. Cosa che stanno già facendo. Hanno un potere contrattuale fortissimo e succede che grandi colossi come la Wanda o la Wei Brothers lavorino in Cina e investano anche a Hollywood. Nessuno può sapere che cosa succederà. Quello che è sicuro è che la Cina diventerà il primo mercato cinematografico mondiale, a livello di incassi in certi momenti dell'anno ha già superato Hollywood e quindi è inevitabile che ci siano sempre più commistioni, perché si può immaginare che anche a Hollywood si cominci a realizzare un tipo di cinema che possa avere un ritorno economico sia in Occidente che in Oriente.

Quale libro e quale film consiglia per avvicinarsi alla cinematografia orientale?
I film da vedere sono quelli del regista giapponese Yasujiro Ozu. Per due anni con la Tucker abbiamo lavorato sulle opere del periodo più importante della sua carriera, che va dagli anni Quaranta agli anni Sessanta, riportandoli nelle sale e raccogliendoli in un cofanetto. Per il libro consiglierei la lettura de "La storia del cinema giapponese" di Donald Richie che è uscito alla fine degli anni Settanta, ma rimane il libro più importante sul cinema giapponese che sia stato scritto.